Filosofa e pedagogista, la professoressa Ilaria Vaglini insegna al corso di perfezionamento sul fine vita e al Master in neuroscienze e pratiche contemplative dell’Università di Pisa. Si occupa della ricerca educativa applicata alle pratiche filosofiche. Sviluppa temi relativi ai problemi del dibattito filosofico e pedagogico sulla natura dell’esperienza umana, la sua finitudine e l’integrazione etica nell’ecosistema formativo.
Con Mauro Sandrino è co-autrice de “Il dialogo incorpo”, un saggio agile che pesa molto più di quanto non facciamo le sue pagine. Pesantezza che è profondità, di quella rara che riguarda l’etica, la cura, l’umanità. Per questo abbiamo voluto porle alcune domande tra quelle che, con naturalezza, emergono non appena si volta l’ultima pagina del suo libro. Siamo pronti alla vera rivoluzione, quella che ci salverà?
Professoressa Vaglini, anche Franco Cassano e Luigi Zoja, tra gli altri, da tempo sostengono l’importanza di tornare ad una cultura lenta, ed elogiano il concetto stesso di lentezza come prerequisito essenziale per ogni “eudaimonia quotidiana“. Se, come scrive lei, il substrato che ha permesso lo sviluppo dell’IA è la velocità estrema del nostro vivere attuale, che speranza può esserci per una decelerazione salvifica?
La tensione che lei evidenzia tocca uno dei nodi centrali della nostra epoca: mentre Cassano e Zoja rivendicano la necessità di una cultura della lentezza come condizione per l’eudaimonia, l’intelligenza artificiale emerge proprio dal cuore della velocità estrema che caratterizza il nostro tempo.
Tuttavia, questa apparente contraddizione potrebbe contenere il germe di una possibile soluzione. L’IA, nata dalla velocità, potrebbe paradossalmente diventare lo strumento che ci restituisce il tempo per la lentezza. Se le macchine assumono su di sé il peso della velocità computazionale, dell’elaborazione frenetica dei dati e della gestione dell’urgenza quotidiana, potrebbero liberare l’umano per ciò che gli è più proprio: la contemplazione, la riflessione, l’esperienza del tempo qualitativo piuttosto che quantitativo.
La decelerazione salvifica non deve necessariamente opporsi all’accelerazione tecnologica, ma può trovare in essa una sorta di alleanza dialettica. Come osservava già Heidegger, la tecnica porta in sé sia il pericolo che la salvezza. L’IA potrebbe rappresentare l’estrema concentrazione della velocità in un dominio separato dall’esperienza umana immediata, creando per contrasto uno spazio di lentezza riconquistata.
Il rischio, naturalmente, è che la velocità della macchina contagi irreversibilmente i ritmi dell’esistenza umana. Ma se riusciamo a mantenere la distinzione tra il tempo della computazione e il tempo dell’esperienza, tra l’e3icienza algoritmica e la saggezza contemplativa, l’IA potrebbe diventare non il nemico della lentezza, ma il suo custode indiretto.
La speranza risiede forse nella possibilità di una nuova sintesi: utilizzare l’estrema velocità delle macchine per creare isole di lentezza umana, dove l’eudaimonia possa finalmente fiorire libera dal peso dell’urgenza tecnologica.
Empatia applicata alla pedagogia: in merito a questa “magia” che dovrebbe esistere tra docente e discente, ritiene che l’attuale sistema scolastico italiano abbia le potenzialità per ascoltare, capire, divulgare e seminare davvero qualcosa di produttivo nelle future generazioni di studenti?
La “magia” pedagogica di cui parla evoca quella dimensione relazionale che i grandi maestri della pedagogia – da Pestalozzi a Freire – hanno sempre riconosciuto come fondamento autentico dell’educazione: l’incontro tra due soggettività che si riconoscono reciprocamente nella loro dignità conoscitiva.
Tuttavia, l’attuale sistema scolastico italiano sembra strutturalmente ostile a questa dimensione empatica. La standardizzazione dei processi, l’ossessione valutativa, la frammentazione disciplinare e soprattutto la riduzione del tempo pedagogico a tempo cronometrato creano un ambiente dove l’ascolto autentico diventa quasi impossibile. Come può nascere l’empatia quando l’insegnante deve “coprire il programma” e lo studente deve “produrre performance”?
Eppure, paradossalmente, è proprio all’interno di questo sistema apparentemente inospitale che continuano a fiorire esperienze pedagogiche straordinarie. Ogni giorno, nelle aule italiane, si consumano piccoli miracoli di comprensione reciproca che trascendono i vincoli burocratici. Questo accade perché l’empatia pedagogica non dipende dalle strutture formali, ma dalla capacità di riconoscere nell’altro – docente o studente – un soggetto portatore di mondo.
La potenzialità del sistema italiano risiede forse proprio in questa sua contraddizione: da un lato una rigidità istituzionale, dall’altro una tradizione umanistica ancora viva e resistente, capace di valorizzare la dimensione relazionale dell’apprendimento. Il problema è che questa “magia” rimane affidata esclusivamente alla sensibilità individuale dei docenti, senza un adeguato sostegno sistemico.
La vera trasformazione richiederebbe il coraggio di ripensare la scuola come luogo dell’incontro prima che dell’istruzione, dove l’empatia diventi metodo pedagogico consapevole e non solo fortunata eccezione.
Con Mauro Sandrini, docente e studioso delle implicazioni dell’intelligenza artificiale in aula, abbiamo approfondito questi temi nel nostro libro. Insieme a Miriam Badalucco, formatrice esperta in pratiche dialogiche e anima operativa sul campo di questa azione formativa, abbiamo avviato percorsi educativi in vari istituti comprensivi. Ad esempio, in Sicilia abbiamo collaborato con l’Istituto “Dante Alighieri” di Valderice e Buseto (TP) e con il “Ciaccio Montalto” di Trapani, dove le dirigenti Francesca Pellegrino e Anna Maria Sacco hanno sviluppato progetti specifici mirati a realizzare questa sintesi. In Toscana, il Liceo Buonarroti di Pisa sta tentando di avviare una sperimentazione della scuola “oltre il voto”, fondata sull’autovalutazione e sulla consapevolezza di sé.
Questi sono solo alcuni dei numerosi progetti che le scuole italiane stanno portando avanti, nella speranza di inaugurare una nuova stagione che renda la scuola non solo formativa, ma profondamente trasformativa.
La necessità del silenzio durante il confronto dialettico. Silenzio come pausa per recuperare ragionevolezza durante lo scontro rumoroso e violento del dialogo. E silenzio come spazio in cui accogliere l’Altro. Tema capitale e foriero di una certa inquietudine: considerando l’assordante chiacchiericcio (come direbbe Paolo Sorrentino) che permea le nostre vite, siamo una società destinata a soccombere per “eccesso di rumore“?
Il silenzio di cui parla non è semplice assenza di suono, ma quella dimensione ontologica che Heidegger chiamava Schweigen – il tacere come forma suprema del dire. Nel confronto dialettico, il silenzio diventa lo spazio in cui il pensiero può raccogliersi prima di articolarsi in parola autentica, quella che nasce dalla riflessione e non dalla reazione immediata.
Gli Stoici avevano già intuito questa profonda connessione tra silenzio e saggezza. Seneca, nelle Epistulae morales, ammoniva che “il saggio parla poco e ascolta molto”, perché comprendeva che il vero apprendimento nasce dall’otium interiore – quella quiete dell’anima che permette di discernere ciò che è essenziale da ciò che è superfluo. Il silenzio senecano non è rinuncia al mondo, ma capacità di creare uno spazio interno dove le passioni si placano e la ragione può finalmente operare.
Marco Aurelio, nei suoi Ricordi, approfondisce questa dimensione contemplativa del silenzio come pratica di ascolto profondo – non solo degli altri, ma del logos universale che attraversa tutte le cose. Per l’imperatore filosofo, il silenzio interiore diventa la condizione per percepire quella razionalità cosmica che unisce tutti gli esseri. “Ritirati spesso nella solitudine per
rinnovare te stesso”, scrive, indicando nel raccoglimento silenzioso la via per ritrovare l’armonia con l’ordine naturale.
La nostra epoca sembra aver smarrito questa sapienza del tacere. Il chiacchiericcio incessante – quello che Heidegger definiva Gerede – non è semplicemente rumore eccessivo, ma parola svuotata di significato, comunicazione che non comunica nulla se non la propria necessità compulsiva di riempire ogni vuoto. È la chiacchiera che impedisce l’ascolto dell’Altro, perché chi parla sempre non può mai accogliere.
L’inquietudine che lei avverte ha radici profonde: una società che ha perduto il senso del silenzio rischia di perdere anche la capacità di pensare. Come osservava Simone Weil, l’attenzione – prerequisito di ogni autentica comprensione – nasce solo nel raccoglimento silenzioso. Senza silenzio, non c’è vera presenza all’Altro, ma solo proiezione narcisistica della propria voce.
La vera rivoluzione contemporanea potrebbe essere pedagogica: imparare di nuovo a tacere per poter davvero ascoltare, riscoprendo quella saggezza stoica che faceva del silenzio non una fuga dal mondo, ma la condizione per abitarlo con maggiore consapevolezza.
Il dialogo incorpo applicato ai conflitti internazionali: se parliamo di una forma di dialogo ancestrale, che trascina con sé le nostre storie e le nostre resilienza di popoli e civiltà, pensa che sarebbe ipotizzabile mirare alla pacificazione globale partendo da questa “nuova” forma di dialogo anche tra cancellerie diplomatiche?
Il dialogo come forma ancestrale di risoluzione dei conflitti richiama immediatamente alla memoria l’intuizione profonda di Erasmo da Rotterdam, che nel suo “Querela pacis” immaginava la Pace personificata lamentarsi dell’insensatezza delle guerre tra cristiani. Per Erasmo, la pace non era semplicemente l’assenza di conflitto, ma l’espressione più alta della ragione umana e della dignità dell’uomo.
L’umanesimo erasmiano si fondava sulla convinzione che attraverso l’educazione, il dialogo e la comprensione reciproca si potesse edificare una società più giusta. Erasmo credeva nella concordia come valore supremo, nell’idea che gli esseri umani, dotati di ragione e di una comune natura, potessero trovare punti di incontro anche nelle divergenze più profonde. La sua critica alla guerra nasceva non da un pacifismo ingenuo, ma dalla consapevolezza che la violenza tradisce l’essenza stessa dell’umanità.
Questo “dialogo incorpo” evoca qualcosa di ancora più profondo: un dialogo che non si limita alle parole, ma che coinvolge l’intero essere, la memoria collettiva, le ferite e le speranze sedimentate nei secoli. È un dialogo che riconosce che ogni popolo porta con sé non solo le proprie ragioni, ma anche le proprie cicatrici, le proprie narrazioni identitarie, la propria Weltanschauung.
Oggi, di fronte alla frammentazione geopolitica e alle nuove forme di conflitto, appare urgente immaginare un nuovo umanesimo che sappia integrare la lezione erasmiana con la consapevolezza della complessità contemporanea. Un umanesimo che riconosca che la pace non può essere imposta dall’alto, ma deve germogliare dalla capacità di ascoltare l’altro non solo come avversario politico, ma come depositario di una storia, di una so7erenza, di una dignità che chiede riconoscimento.
Le cancellerie diplomatiche, intrappolate spesso in logiche di potenza e interesse nazionale, potrebbero trarre beneficio da questo approccio più profondo. Immaginare un dialogo che vada oltre la negoziazione tattica per toccare le radici antropologiche del conflitto: riconoscere che dietro ogni posizione politica c’è un popolo che ha vissuto, so3erto, sperato.
Questo nuovo umanesimo diplomatico richiederebbe una rivoluzione copernicana: passare dal chiedersi “come possiamo vincere?” al chiedersi “come possiamo costruire insieme un futuro in cui la dignità di tutti sia rispettata?”. Significa riconoscere che la pace autentica non nasce dalla sottomissione del più debole, ma dalla creazione di spazi in cui le diverse narrazioni possano coesistere e fecondarsi reciprocamente.
La pacificazione globale attraverso questo dialogo ancestrale è possibile, ma richiede il coraggio di superare la logica meramente transazionale per abbracciare una visione più ampia dell’umano. Come scriveva Erasmo, “la pace è il bene supremo”, ma aggiungerei che è anche il più di3icile da conquistare, perché richiede di riconoscere nell’altro non il nemico da sconfiggere, ma il fratello da comprendere.