Padova, 7 giugno 1984. Enrico Berlinguer si affaccia al palco di Piazza della Frutta, tra la folla che lo applaude e urla il suo nome. Il suo è un comizio che fa parte della campagna elettorale per le elezioni europee. Durante il discorso si ferma, beve un sorso d’acqua. Riprende a parlare. Si accascia e si rialza. La voce si incrina. Sta visibilmente male. La piazza lo guarda, lo sostiene, poi grida ‘’Basta!’’. Ma lui continua. Parlerà per circa dodici minuti.
È l’ultimo discorso di Enrico Berlinguer. Morirà 4 giorni dopo, l’11 giugno. Ai suoi funerali, a Roma, parteciperanno un milione e mezzo di persone.
Guardare e ascoltare Berlinguer
Scrivere oggi di ciò che ha fatto e rappresentato Berlinguer non si può fare in poche righe. Il suo percorso è troppo denso, troppo intrecciato alla storia d’Italia, alla sinistra, alle speranze e alle delusioni di un intero Paese. Difficile è anche scriverne con distacco. Berlinguer non è solo un leader: è un simbolo. Un’anima nobile. L’uomo che ancora commuove.
E allora, per conoscere Berlinguer, bisogna guardarlo. Osservarlo mentre stringe la mano agli operai. Mentre visita le fabbriche. Mentre sorride, in quella giacca stropicciata che non indossa mai con sfarzo. Per conoscere Berlinguer, lo si deve ascoltare. Lo si ascolti nel 1973, quando, all’indomani del colpo di Stato in Cile, lancia la proposta del compromesso storico. Un’intesa tra le grandi forze popolari del Paese per difendere la democrazia, evitare derive autoritarie, costruire una coesistenza tra culture politiche diverse.
Una scelta dettata non da tatticismi, ma da un’idea alta e drammatica della politica: quella che, nei momenti più bui, impone il coraggio di unire invece che dividere. Lo si ascolti a Mosca, nel 1977, al congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, quando ha il coraggio di rompere con il dogma sovietico e dire: ’’la democrazia è un valore universale’’.
Lo si ascolti davanti ai cancelli della Fiat Mirafiori, nel 1980, quando si schiera apertamente con i lavoratori, dichiarando: ‘’ Se voi decidete, democraticamente, di occupare la fabbrica, il Partito Comunista Italiano sarà con voi.’’ Lo si ascolti alla Festa dell’Unità di Bologna, nel 1981, dove afferma: “La cultura è leva determinante ed essenziale, non per il dominio, ma per la liberazione.”
Si potrebbe andare avanti all’infinito, perché in nessun momento Berlinguer ha detto qualcosa che non facesse riferimento a quella visione kantiana di politica come dovere morale, in grado di rappresentare la società tutta, contro le logiche di potere e convenienza.
L’ultimo comizio: quello che si deve difendere e quello che si deve combattere
Quando a diciotto anni viene arrestato, per aver partecipato a una protesta contro la scarsità del pane, Berlinguer scrive in una lettera: ‘’L’apoliticità è una malattia diffusa, però non è epidemica… finora sono rimasto fortunatamente immune da questa nuova, elegante moda neofascista’’. 44 anni dopo, a Padova, il Segretario del PCI è ancora lì, a onorare il suo patto con la politica. Il suo ultimo discorso contiene i temi a cui ha dedicato l’intera vita:
- La difesa della democrazia: parla di un’Italia in cui “tornano in gioco le questioni essenziali della libertà e della democrazia’’;
- Il ruolo dei giovani: “Nel mondo giovanile vi sono immense energie e potenzialità… l’esigenza di un futuro per il quale valga la pena di lavorare, di studiare, di lottare.”
- La questione morale: Berlinguer condanna la corruzione, il clientelismo, la presenza inquietante della P2 nelle istituzioni. E difende i lavoratori, attaccando il decreto di Craxi che taglia la scala mobile: per lui, non è una riforma tecnica, ma un colpo ai diritti sociali, un attacco diretto al salario e alla dignità del lavoro.
La parte finale del comizio, detta con dignità e fatica, ha la forza di un testamento civile, di un appello che è saluto e consegna: ‘’Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini, con la fiducia per le battaglie che abbiamo fatto, per le proposte che presentiamo, per quello che siamo stati e siamo. È possibile conquistare nuovi e più vasti consensi alle nostre liste, alla nostra causa, che è la causa della pace, della libertà, del lavoro, del progresso della nostra civiltà’’.
Contro la rassegnazione del nostro tempo
Oggi, nel tardo capitalismo, l’orizzonte del possibile si è ristretto. Il sistema non nega le opposizioni: le assorbe, le svuota, le depotenzia. In questo contesto, dove il there is no alternative sembra una verità assoluta, si parla di Berlinguer come si parla di un sogno perduto, di un’eccezione morale che non potrà più tornare.
Ma è proprio questo uno dei tanti inganni del contemporaneo, in cui la coerenza è ingenuità, la sobrietà è debolezza, l’etica è un’utopia. Enrico Berlinguer è una figura fuori dal tempo, sì, ma non perché è obsoleta, ma perché è incompatibile con il nostro presente. Non si piega al cinismo post- ideologico, alla rassegnazione produttiva, alla trappola del pensiero unico, che ci ripete che ogni sistema alternativo al nostro è un’illusione. Il segretario del PCI non era un sognatore, ma un realista morale. Non proponeva un’utopia, ma una democrazia esigente. E Il suo testamento non è un ricordo da custodire, ma un compito da raccogliere.