Ci sono artisti che sembrano destinati a rimanere giovani per sempre. Non solo perché la morte li ha portati via troppo presto, ma perché la loro musica, le loro facce, persino le loro fotografie in bianco e nero, parlano ancora oggi di gioventù, ribellione e voglia di vivere. Eddie Cochran era uno di questi.
Il 17 aprile 1960, su una strada qualunque dell’Inghilterra, la musica perse uno dei suoi pionieri più brillanti e meno celebrati. Aveva appena 21 anni, ma con la sua chitarra e la sua voce aveva già lasciato il segno in un’epoca che stava cambiando tutto. Quella notte, di ritorno da un concerto a Bristol, Eddie era in macchina con Gene Vincent e la sua fidanzata Sharon Sheeley. L’auto sbandò e finì contro un lampione. Lui fu sbalzato fuori dal veicolo. Morì in ospedale poche ore dopo.
Un ragazzo dell’America profonda, con il rock nel sangue
Eddie era nato in Minnesota, cresciuto in California, e aveva cominciato a suonare giovanissimo. Era uno di quei ragazzi che nel garage di casa ascoltavano Elvis Presley e cercavano di imitarlo, ma finivano per inventarsi qualcosa di nuovo. Il suo stile era grezzo ma pieno di energia, un rockabilly venato di blues, suonato con la faccia da bravo ragazzo e l’anima da ribelle. Non scriveva solo canzoni leggere da jukebox. In “Summertime Blues”, il suo brano più celebre, raccontava i piccoli drammi dei giovani americani degli anni ’50: il lavoro estivo, i genitori che non capiscono, la frustrazione per non poter uscire la sera. Niente di eclatante, ma proprio per questo così vero.
Nel 1960, Eddie partì per un tour in Inghilterra. In Europa, il rock’n’roll americano era visto come qualcosa di mitico: ribelle, sporco, autentico. Eddie e Gene Vincent fecero il pienone ovunque andassero. Il pubblico inglese li adorava. Tra quegli spettatori c’erano anche alcuni ragazzini con i capelli lunghi che, qualche anno dopo, si sarebbero fatti chiamare Beatles e Rolling Stones. Ma quel tour fu anche l’ultimo. La notte dell’incidente stavano tornando a Londra, dopo l’ennesima serata sold out. Una curva presa male, una strada bagnata, un lampione contro cui si è infranto un sogno.
Dopo di lui, niente fu più lo stesso, la morte di Eddie Cochran scosse l’ambiente musicale, ma allo stesso tempo contribuì a costruire la leggenda. In soli quattro anni di carriera aveva inciso una manciata di brani, ma bastarono per influenzare tre generazioni. Paul McCartney raccontò che quando incontrò per la prima volta John Lennon, per impressionarlo suonò “Twenty Flight Rock”, proprio una canzone di Eddie. Senza quella canzone, forse i Beatles non sarebbero mai nati.
Gli Who lo citarono tra le loro ispirazioni, e negli anni ’70 persino i Sex Pistols ripresero “C’mon Everybody”, trasformandola in un inno punk. La sua chitarra grezza, il suo modo di cantare ruvido ma diretto, sembravano parlare un linguaggio eterno.
Eddie Cochran non è stato il primo rocker a morire giovane, ma è stato uno dei primi a diventare un simbolo di quella fiamma che brucia veloce e lascia un segno. A differenza di altri, non fu solo vittima della sua epoca. Era lucido, determinato, amava quello che faceva. La sua carriera non fu travolta dagli eccessi, ma solo da una tragica fatalità. E oggi, a più di 60 anni dalla sua scomparsa, le sue canzoni continuano a suonare fresche, sincere, immediate. Perché parlano ancora di noi, di quella voglia di gridare al mondo che ci siamo, che vogliamo correre, cantare, sbagliare, ma farlo a tutto volume.
Se vi capita, oggi, mettete su Summertime Blues. Magari mentre state andando al lavoro, o siete bloccati nel traffico. Fatelo per ricordare che anche il lunedì più grigio può diventare un po’ più rock, grazie a un ragazzo di 21 anni che non voleva altro che suonare e farsi sentire.