Oggi, 3 aprile, ma nel 1946, il generale giapponese Masaharu Honma veniva giustiziato nei pressi di Manila, nelle Filippine. Il suo nome è legato a uno degli episodi più tragici della Seconda Guerra Mondiale nel Pacifico: la Marcia della Morte di Bataan.
Accusato di crimini di guerra per il trattamento riservato ai prigionieri di guerra americani e filippini durante la marcia forzata, Honma fu processato e condannato da un tribunale militare statunitense.
La guerra nel Bataan: un assedio disperato
La battaglia di Bataan ebbe luogo tra il gennaio e l’aprile del 1942 e fu uno degli scontri più significativi della campagna delle Filippine. Dopo l’attacco a Pearl Harbor il 7 dicembre 1941, il Giappone lanciò un’offensiva su vasta scala per conquistare il Sud-est asiatico e le isole del Pacifico. Le Filippine, allora sotto il controllo degli Stati Uniti, furono uno degli obiettivi principali dell’Impero giapponese. Le forze americane e filippine, guidate dal generale Douglas MacArthur, furono rapidamente sopraffatte e costrette a ritirarsi nella penisola di Bataan, dove organizzarono una resistenza disperata.
Per oltre tre mesi, i difensori di Bataan combatterono con risorse sempre più limitate, affrontando malattie, scarsità di cibo e munizioni. Nonostante l’inferiorità numerica e materiale, riuscirono a ritardare l’avanzata giapponese, infliggendo pesanti perdite al nemico.
Tuttavia, il 9 aprile 1942, ormai privi di rifornimenti e con le truppe esauste, i comandanti alleati si arresero. Oltre 75.000 soldati americani e filippini furono catturati, dando inizio alla famigerata Marcia della Morte di Bataan, uno dei più brutali episodi della guerra nel Pacifico. La resistenza a Bataan, pur terminando con una sconfitta, rallentò l’avanzata giapponese e permise agli Stati Uniti di riorganizzarsi per la riconquista delle Filippine nel 1944.
La Marcia della Morte di Bataan: un’atrocità senza precedenti
Dopo la caduta della penisola di Bataan, il 9 aprile 1942, oltre 75.000 prigionieri di guerra alleati—tra soldati americani e filippini—furono costretti a percorrere a piedi circa 100 chilometri verso un campo di prigionia a San Fernando. Le condizioni erano disumane: i prigionieri furono sottoposti a violenze, privati di cibo e acqua per giorni e chiunque cadesse lungo il tragitto veniva giustiziato sommariamente. Si stima che tra 5.000 e 18.000 prigionieri persero la vita durante la marcia.
Dopo la resa del Giappone nell’agosto 1945, le forze alleate avviarono una serie di processi per crimini di guerra contro i leader militari giapponesi. Honma fu accusato di aver permesso, o comunque non impedito, le atrocità commesse dalle truppe sotto il suo comando. La sua difesa sostenne che non era direttamente responsabile degli abusi e che la marcia era stata gestita da ufficiali subordinati, ma il tribunale militare statunitense di Manila lo ritenne colpevole.
Il processo, conclusosi nel febbraio 1946, si svolse in un clima di forte tensione e desiderio di giustizia da parte delle Filippine e degli Stati Uniti. Honma fu condannato a morte e il 3 aprile 1946 venne fucilato.
Il dibattito storico
La condanna di Honma rimane tuttora oggetto di dibattito tra gli storici. Alcuni sostengono che fosse un capro espiatorio, punito più per l’orrore della Marcia della Morte che per una sua diretta responsabilità. Altri, invece, sottolineano che, come comandante delle forze giapponesi a Bataan, avesse il dovere di proteggere i prigionieri e che la sua negligenza lo rendesse colpevole.
La Marcia della Morte di Bataan è ricordata come uno dei peggiori crimini di guerra della Seconda Guerra Mondiale. La giustizia riservata a Honma fu un segnale chiaro che gli alleati non avrebbero tollerato simili atrocità, ma il suo caso solleva ancora interrogativi sulle responsabilità individuali nei conflitti e sui limiti della giustizia di guerra.
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