Oggi, 5 aprile, è una data che merita memoria. È il giorno in cui, nel 1895, Oscar Wilde uscì da un’aula di tribunale a testa bassa, non più solo un celebre autore ammirato nei salotti londinesi, ma un uomo braccato, umiliato e sull’orlo dell’abisso.
Quel giorno, Oscar Wilde smise di essere una figura letteraria e divenne un martire della libertà, dell’amore e dell’autenticità.
L’uomo che aveva troppo amore e troppo spirito per il suo tempo
Per capire il dramma giudiziario che travolse Wilde, bisogna partire da chi era: un esteta, un dandy, un intellettuale che si nutriva di paradossi e vestiva con ironia la propria intelligenza. Oscar Wilde non fu mai un uomo “normale”. Troppo brillante per i benpensanti, troppo elegante per l’ipocrisia vittoriana, troppo libero per una società che preferiva la menzogna ben vestita alla verità nuda.
La sua scrittura – romanzi, drammi, fiabe e saggi – era il riflesso di un’anima complessa, affamata di bellezza e verità. Ma la bellezza, in quel mondo, doveva restare nel recinto dell’arte. Quando Wilde osò viverla anche nella sua vita privata, quando amò apertamente Lord Alfred Douglas, giovane, volubile e pericolosamente vanitoso, il prezzo fu altissimo.
Una querela che diventa condanna
Il 18 febbraio 1895, il marchese di Queensberry, padre di Alfred, lasciò nel club frequentato da Wilde una carta da visita con un insulto scritto a mano: “To Oscar Wilde, posing somdomite”. Una provocazione velenosa, piena d’odio e ignoranza. Eppure Wilde, invece di ignorarla, decise di agire legalmente. Era convinto che la sua fama, la sua arte e il suo spirito avrebbero avuto la meglio. Aveva torto.
Il processo per diffamazione intentato contro il marchese iniziò il 3 aprile. In aula, la difesa rovesciò la situazione: dimostrò che l’accusa del marchese non era infondata. Gli avvocati portarono alla luce lettere d’amore, incontri con giovani uomini, versi e allusioni presenti nelle sue opere. Ogni frase, ogni battuta brillante pronunciata da Wilde in passato si ritorse contro di lui come una lama.
Il 5 aprile, Wilde ritirò la querela. Ma la macchina della giustizia vittoriana – quella che si veste di morale ma odora di ipocrisia – era ormai in moto. Poche ore dopo, Wilde fu arrestato. Il crimine? “Gravi atti osceni con altri uomini”. Un’accusa ambigua, un cappio legale usato per punire l’omosessualità, allora considerata non solo peccato, ma reato.
Ne seguirono due processi penali. Wilde, con il suo inconfondibile aplomb, cercò di difendere non solo sé stesso ma anche la dignità del sentimento umano. Disse ai giudici che l’amore che provava per Alfred Douglas era “il più nobile sentimento che possa provare un uomo per un altro”. Parole commoventi, ma inutili: non erano i sentimenti ad essere processati, ma la libertà di amarli.
Il 25 maggio 1895 arrivò la sentenza: due anni di lavori forzati. In carcere, Wilde fu distrutto fisicamente e psicologicamente. Passò da eroe dei salotti a numero 3.3. nella prigione di Reading. Il suo corpo si ammalò, i suoi capelli divennero bianchi. Eppure, anche lì, nella desolazione, trovò parole da lasciare al mondo.
In prigione scrisse De Profundis, una lunga lettera indirizzata a Bosie, piena di dolore, di amarezza, ma anche di lucidità e bellezza. Era la confessione finale, la resa senza rabbia. Poi, una volta libero, esiliato in Francia, scrisse La ballata del carcere di Reading, un’opera toccante in cui trasforma il proprio martirio in denuncia poetica.
Oscar Wilde morì povero e dimenticato a Parigi, nel 1900, a soli 46 anni. Morì in una stanza d’albergo modesta, lontano da quegli arazzi e da quelle conversazioni brillanti che amava tanto. La sua ultima battuta – “o se ne va questa carta da parati, o me ne vado io” – racchiude tutto il suo spirito: il rifiuto di rinunciare all’ironia, anche di fronte alla morte.
Che cosa resta?
Resta il rumore sordo di quel verdetto del 1895, che fece più rumore del fruscio delle pagine dei suoi libri. Resta il ritratto di un uomo che non volle nascondersi. Resta il paradosso eterno: Wilde fu punito per aver amato, e amato troppo apertamente, troppo sinceramente, troppo pericolosamente. Ma forse, proprio per questo, è diventato immortale.
E oggi, 5 aprile, non possiamo che dirgli: grazie.
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