La leggenda del mostro di Loch Ness
Prima di addentrarci nei dettagli tecnici del ritrovamento, vale la pena fare un passo indietro. La leggenda di Nessie non nasce con le moderne fotografie sgranate né con i radar. Le sue radici affondano nei secoli, fino all’anno 565 d.C., quando San Colombano, monaco irlandese, avrebbe salvato un uomo da “una bestia acquatica” che infestava il fiume Ness, affluente dell’omonimo lago. È il primo presunto avvistamento documentato, narrato nella Vita di San Colombano scritta da Adomnán. Da lì, il silenzio. Per secoli, Nessie resta un sussurro nei racconti popolari delle Highlands.
È solo nel XX secolo, con l’avvento dei mass media, che la leggenda prende davvero il largo. Nel 1933, un articolo del Inverness Courier racconta l’avvistamento di una “enorme creatura ondulante” da parte di una coppia in auto lungo la sponda del lago. Il mostro era nato. O, almeno, la sua icona.
Da quel momento, Loch Ness si trasforma: da lago remoto e placido diventa una calamita per scienziati, avventurieri, cineasti e curiosi. La foto più famosa – quella cosiddetta del “chirurgo” del 1934 – mostra un lungo collo emergere dall’acqua. Diventerà simbolo stesso del mistero, prima di essere smentita, decenni dopo, come una burla ben orchestrata con modellini giocattolo.
Eppure, la leggenda non è crollata. Come tutte le buone storie, Nessie ha continuato a reinventarsi. Anche perché, paradossalmente, nessuna prova definitiva della sua esistenza ha mai fatto più rumore della sua costante assenza.
Cercando Nessie
Negli anni ’60 e ’70, il desiderio di portare chiarezza su Nessie prende una svolta metodica: nasce il Loch Ness Investigation Bureau (LNIB), un’organizzazione scientifica semi-ufficiale formata da volontari, biologi, tecnici e semplici appassionati. La loro missione? Monitorare il lago in maniera sistematica per individuare qualsiasi prova oggettiva dell’esistenza del mostro.
Fu proprio nell’ambito di questo progetto che, nel 1970, vennero installati sofisticati sistemi fotografici subacquei, dotati di meccanismi d’attivazione a esca. L’idea era semplice ma geniale: se una creatura si fosse avvicinata all’apparato per nutrirsi o per semplice curiosità, sarebbe stata immortalata. Ma qualcosa andò storto. Tre delle sei telecamere installate andarono perse durante violente tempeste; le altre non fornirono alcuna immagine significativa, se non ventiquattro scatti opachi che mostrano fondali melmosi e buio pesto.
Per molti, fu la conferma definitiva che Nessie non c’era. Per altri, l’ennesimo segnale che, se anche esiste, il mostro è un maestro nell’arte dell’occultamento.
Un ritorno inatteso
Oggi, dopo oltre cinquant’anni, una di quelle telecamere “perdute” è tornata a farsi viva. A trovarla, in modo del tutto fortuito, è stato il veicolo autonomo Boaty McBoatface – nome bizzarro assegnato tramite concorso pubblico, ma dotato di strumentazione di ultima generazione.
Durante una missione esplorativa a 180 metri di profondità, in una zona particolarmente torbida del lago, Boaty ha rilevato una struttura metallica anomala. Una volta riportata in superficie, gli esperti del National Oceanography Centre l’hanno identificata: si trattava di una delle telecamere del 1970, ancora parzialmente integra nonostante decenni trascorsi nelle acque acide e scarsamente ossigenate del lago.
Il valore di questo ritrovamento non è nel suo contenuto – le immagini, ovviamente, erano già state sviluppate all’epoca – ma nel suo significato. È una capsula del tempo, una testimonianza concreta della volontà umana di esplorare l’ignoto con metodo e determinazione.
Sarà forse deludente per chi sperava in nuove “prove”, ma questa scoperta racconta molto più di un presunto mostro. Racconta una stagione in cui la scienza si è piegata (con orgoglio) alla curiosità, in cui gli strumenti tecnologici si sono messi al servizio dell’immaginazione collettiva. In cui la razionalità non escludeva il fascino dell’inspiegabile, ma lo prendeva sul serio.
Perché Loch Ness non è solo un lago. È un simbolo: dell’uomo che cerca risposte, anche quando le domande sembrano assurde. È una metafora dell’ignoto che ci attrae e ci sfugge. E, in un certo senso, anche un monumento alla resilienza del mito nell’era dell’iperconnessione e dell’ipercontrollo.
Il mostro non si mostra? Forse è perché non vuole. O forse perché non c’è mai stato. Ma ogni volta che un radar scruta le acque, ogni volta che una telecamera si accende, ogni volta che qualcuno si ferma sulla riva con un binocolo e un po’ di speranza… Nessie, in un certo senso, esiste.
Non sapremo mai se il Loch Ness Monster è realtà biologica, allucinazione collettiva o ingegnosa trovata turistica. Ma sappiamo che ha fatto viaggiare milioni di persone, ispirato libri, documentari e dibattiti accesi. Ha obbligato la scienza a guardare dentro se stessa, a interrogarsi sul confine tra possibile e plausibile.
E ora, con la risalita di una telecamera perduta, Loch Ness ci ricorda che certi misteri non si risolvono. Si rispettano.