Oggi: 4 Luglio 2025
10 Aprile 2025
3 minuti di lettura

Perché Trump ha fatto marcia indietro sui dazi?

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FILE PHOTO: U.S. President Donald Trump holds a "Foreign Trade Barriers" document as he delivers remarks on tariffs in the Rose Garden at the White House in Washington, D.C., U.S., April 2, 2025. REUTERS/Carlos Barria TPX IMAGES OF THE DAY/File Photo

Fino a pochi giorni fa, sembrava che Donald Trump fosse pronto a tutto. Il piano era chiaro: mantenere le tariffe doganali per mettere pressione su mezzo mondo, costringerlo al tavolo delle trattative e ridisegnare, a modo suo, gli equilibri del commercio globale. Ma poi qualcosa è andato storto. E il presidente americano si è trovato costretto a frenare.

Considerando il fatto che più di 75 Paesi hanno contattato i rappresentanti degli Stati Uniti per negoziare una soluzione, ha dichiarato, ho autorizzato una pausa di 90 giorni. Una retromarcia. Ma la domanda vera è: perché?

La risposta si trova lontano dai clamori della Casa Bianca o dai tweet presidenziali. Bisogna andare a scavare nel cuore opaco dei mercati finanziari, tra grafici dei rendimenti e vendite improvvise di bond americani. Perché la vera crisi – quella che ha spaventato davvero Washington – non è arrivata da Pechino o Bruxelles, ma da Wall Street. Anzi, dal Tesoro americano.

Il boomerang dei dazi

Tutto è iniziato con un movimento improvviso. I rendimenti dei titoli di Stato Usa a dieci anni hanno cominciato a salire, passando in pochi giorni da valori inferiori al 4% a oltre il 4,5%. Un segnale chiaro, inequivocabile: qualcuno stava vendendo in massa.

Per chi non mastica finanza: quando il prezzo dei bond scende, il rendimento sale. Ma più i rendimenti salgono, più costa allo Stato rifinanziare il proprio debito. Ed è qui che l’ingranaggio ha cominciato a cigolare. L’amministrazione Trump aveva scommesso che, in caso di turbolenze, gli investitori si sarebbero rifugiati proprio nei titoli del Tesoro Usa. Come sempre. Come accadeva da decenni.

E invece no. Stavolta il mondo ha voltato le spalle.

Con l’escalation della guerra commerciale, i mercati hanno iniziato a dubitare della solidità del sistema americano. Le vendite di bond non sono arrivate solo dalla Cina o da altri paesi esteri. Sono partite dagli stessi fondi americani. Hedge fund, gestori di portafoglio e grandi investitori istituzionali hanno iniziato a liberarsi dei Treasury per recuperare liquidità. Alcuni, per coprire posizioni in perdita. Altri, perché non si fidano più.

Come ha sottolineato la Deutsche Bank, il mercato ha lanciato un messaggio inequivocabile:

“Gli asset statunitensi non sono più intoccabili”.

Il Tesoro americano, che per decenni ha rappresentato il cuore liquido della finanza globale, sta perdendo appeal. Non perché non sia solvibile, ma perché l’equilibrio geopolitico che lo sosteneva si sta incrinando.

L’“opzione nucleare” cinese

Tra i tre principali detentori esteri di debito Usa – Europa, Giappone e Cina – è proprio Pechino a far tremare Washington. Con oltre 750 miliardi di dollari in titoli americani, la Cina possiede una leva potentissima. Una vendita massiccia potrebbe destabilizzare l’intero sistema finanziario statunitense. E sebbene l’“opzione nucleare” resti per ora solo teorica, il fatto stesso che se ne parli è un campanello d’allarme.

Come ha dichiarato Grace Tam, chief investment advisor di BNP Paribas Wealth Management, a Reuters:

“I mercati temono che la Cina e altri Paesi possano disfarsi dei Treasury come forma di ritorsione.”

La semplice possibilità che il patto tacito tra Washington e il resto del mondo – “voi comprate il nostro debito, noi garantiamo stabilità” – venga meno, ha scatenato il panico.

La fine dell’eccezionalismo americano?

Per tutta la seconda metà del Novecento, gli Stati Uniti hanno rappresentato il centro di gravità del mondo: potenza militare, polo tecnologico, guida morale e soprattutto porto sicuro per i capitali. Ma l’era Trump – fatta di dazi, scontri diplomatici e decisioni unilaterali – ha incrinato questa fiducia.

Il Financial Times lo aveva scritto settimane fa:

“La guerra commerciale voluta da Trump potrebbe distruggere l’eccezionalismo americano.”

Perché i dazi, oltre a colpire i partner commerciali, tagliano i margini alle imprese, riducono i consumi interni, e mettono in discussione la credibilità del sistema economico statunitense.

La conseguenza? Il mondo inizia a chiedersi: e se l’America non fosse più quel rifugio sicuro di un tempo?

Il retroscena di una ritirata strategica

La verità è che, dietro la marcia indietro di Trump, non c’è solo il calcolo politico o il pressing diplomatico. C’è il timore, concreto e urgente, di una crisi di fiducia sistemica. Una crisi che partirebbe dai mercati finanziari per arrivare a travolgere l’intero edificio del potere americano.

Trump, da abile comunicatore, ha mascherato la ritirata come una “pausa per favorire il dialogo”. Ma la realtà è ben diversa:
era il mercato a non essere più disposto ad aspettare.

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Riminese, classe 1997. Direttrice editoriale di LaLettera22, un portale di informazione nato con l’obiettivo di raccontare la complessità del mondo attraverso l’approfondimento e la divulgazione di varie tematiche culturali.

Dopo la laurea in Lettere e culture letterarie europee presso l’Università di Bologna, ha proseguito il suo percorso accademico specializzandosi in Giornalismo e cultura editoriale all’Università di Parma. Da sempre appassionata di storia, geopolitica e comunicazione, ha trasformato il suo interesse in una missione divulgativa, lanciando il progetto Lettera22 sui social per rendere la cultura più accessibile e stimolare il dibattito su temi di attualità.

Oltre a dirigere il portale, lavora come articolista e social media manager, curando strategie editoriali e contenuti per il web. Il suo lavoro unisce analisi critica, narrazione e innovazione digitale, con l’obiettivo di avvicinare il pubblico a temi spesso percepiti come distanti, rendendoli fruibili e coinvolgenti.

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