Oggi: 4 Luglio 2025
17 Aprile 2025
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Trump contro Harvard: stretta sulle università americane e minacce ai media pubblici

trump contro harvard

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha aperto un nuovo fronte politico. Questa volta il bersaglio non sono i migranti, i giudici o i giornalisti. Sono le università. In testa alla resistenza c’è Harvard, simbolo dell’élite accademica americana, ora diventata anche simbolo della disobbedienza istituzionale.

Con una lettera pubblicata sul sito ufficiale dell’ateneo, il presidente di Harvard Alan Garber ha tracciato una linea netta: “Harvard non rinuncerà alla propria indipendenza né ai propri diritti costituzionali”. L’università, ha spiegato, respinge le richieste dell’amministrazione di smantellare gli accampamenti studenteschi pro-Gaza, di tagliare programmi dedicati alla diversità e di filtrare assunzioni e ammissioni sulla base dell’orientamento politico di candidati e professori. “Queste richieste – ha scritto Garber – vanno oltre il potere del governo federale e minacciano i nostri valori fondamentali.”

Una sfida diretta a un presidente che da mesi cerca di mettere sotto controllo il mondo accademico, accusandolo di alimentare un clima anti-americano, radicale, woke. E la reazione non si è fatta attendere.

Su Truth Social, Trump ha replicato accusando Harvard di promuovere “malattie ideologiche e terroristiche” e ha minacciato di revocare all’università il suo status di esenzione fiscale. Subito dopo, l’amministrazione ha congelato oltre 2,2 miliardi di dollari in sovvenzioni federali e contratti pubblici destinati all’ateneo. Il messaggio è chiarissimo: chi non si piega, paga.

Nel mirino anche gli studenti

Ma Harvard è solo l’inizio. La Casa Bianca ha istituito una task force per indagare almeno 60 università statunitensi. L’accusa ufficiale: non avrebbero contrastato con sufficiente fermezza l’antisemitismo nelle manifestazioni studentesche contro la guerra a Gaza. Dietro l’etichetta di sicurezza e ordine pubblico, si cela però un’operazione ben più ambiziosa: ridefinire il rapporto tra Stato e mondo accademico.

Cornell University ha già subito il congelamento di oltre un miliardo di dollari in fondi federali. La New York University ha ricevuto un ultimatum dal Dipartimento dell’Istruzione: adottare misure “visibili” per proteggere gli studenti ebrei o affrontare misure coercitive. Intanto Princeton ha sospeso diverse borse di studio finanziate da enti federali come NASA, Dipartimento dell’Energia e Difesa, senza fornire spiegazioni.

In gioco c’è la possibilità, già discussa da ambienti vicini alla Casa Bianca, di rivedere i criteri di idoneità che consentono agli atenei di accedere a fondi pubblici, prestiti agli studenti, contributi per la ricerca. In pratica: chi non si allinea, rischia di essere escluso dal sistema.

Il braccio di ferro si consuma anche sul fronte degli studenti, sempre più nel mirino delle autorità. Nelle ultime settimane, decine di studenti stranieri coinvolti nelle proteste pro-Palestina sono stati arrestati da agenti dell’ICE, l’agenzia federale per il controllo dell’immigrazione. Molti di loro rischiano l’espulsione.

Il caso più emblematico è quello di Mohsen Mahdawi, uno degli organizzatori delle manifestazioni alla Columbia University. Mahdawi – nato in un campo profughi in Cisgiordania – vive legalmente negli Stati Uniti da oltre dieci anni con una green card. È stato fermato durante un colloquio per ottenere la cittadinanza in un ufficio dell’immigrazione nel Vermont.

Insieme a lui, sono finiti nel mirino Mahmoud Khalil, altra figura di spicco delle proteste alla Columbia, e Rumeysa Ozturk, dottoranda alla Tufts University, arrestata fuori dal proprio appartamento in Massachusetts. L’accusa formale è vaga: “violazioni legate all’immigrazione”. Ma il messaggio è politico: partecipare alle proteste può costarti il visto. O la vita accademica.

I media pubblici nel mirino: PBS e NPR verso il taglio

La stretta repressiva non si limita alle università. I prossimi nella lista nera della Casa Bianca sono i media pubblici. Secondo diverse fonti, il governo si prepara a presentare in Congresso una proposta di legge per tagliare i fondi alla Corporation for Public Broadcasting, che finanzia le due principali emittenti pubbliche del paese: PBS e NPR.

A guidare l’operazione è Russell Vought, ex direttore dell’Ufficio di Gestione e Bilancio, che ha accusato PBS e NPR di “diffondere propaganda radicale camuffata da informazione”. Un’accusa che riecheggia la retorica trumpiana secondo cui la libertà di stampa diventa sospetta quando non è allineata al potere.

La misura colpirebbe oltre 1.500 radio e televisioni locali, soprattutto nelle aree rurali, dove rappresentano spesso l’unica fonte di informazione indipendente. “Non si tratta solo di budget – ha commentato Jim Schachter, CEO di New Hampshire Public Radio – ma del diritto dei cittadini a essere informati senza filtri politici.”

La posizione di Harvard non è rimasta isolata. Dopo settimane di silenzio, anche Columbia University ha annunciato che non accetterà più alcune delle imposizioni del governo. Altre grandi università come Yale, MIT e Princeton stanno valutando una linea simile.

Per Mario Del Pero, storico e docente a Sciences Po e all’ISPI, la svolta di Harvard segna un cambio di passo. “La docilità iniziale di molte istituzioni è stata sorprendente. Ma ora si intravede una crepa. Harvard ha aperto una breccia, e altre potrebbero seguirla. Università dotate di enormi risorse economiche e di una forza simbolica e politica reale possono diventare i nuovi contrappesi a un progetto autoritario sempre più esplicito.

Del Pero sottolinea come il conflitto tra potere politico e istituzioni indipendenti stia accelerando. “È in gioco la tenuta dell’equilibrio democratico. Le università, come le corti e i media, sono bersagli proprio perché non sono controllabili. E la loro resistenza, oggi, è una delle poche barricate rimaste.”

Una guerra culturale?

Non è solo una battaglia tra Trump e Harvard. È lo scontro tra due visioni opposte dell’America: una centralista, ideologica, punitiva; l’altra pluralista, autonoma, aperta al dissenso.

Dietro le accuse di antisemitismo, le minacce fiscali e le deportazioni mascherate, c’è un’operazione chirurgica per ridisegnare il mondo accademico e mediatico a misura di potere. Ma il fuoco acceso da Harvard potrebbe contagiare. E se le università sapranno fare fronte comune, potrebbero trasformarsi – di nuovo – in un argine solido contro la deriva autoritaria.

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Riminese, classe 1997. Direttrice editoriale di LaLettera22, un portale di informazione nato con l’obiettivo di raccontare la complessità del mondo attraverso l’approfondimento e la divulgazione di varie tematiche culturali.

Dopo la laurea in Lettere e culture letterarie europee presso l’Università di Bologna, ha proseguito il suo percorso accademico specializzandosi in Giornalismo e cultura editoriale all’Università di Parma. Da sempre appassionata di storia, geopolitica e comunicazione, ha trasformato il suo interesse in una missione divulgativa, lanciando il progetto Lettera22 sui social per rendere la cultura più accessibile e stimolare il dibattito su temi di attualità.

Oltre a dirigere il portale, lavora come articolista e social media manager, curando strategie editoriali e contenuti per il web. Il suo lavoro unisce analisi critica, narrazione e innovazione digitale, con l’obiettivo di avvicinare il pubblico a temi spesso percepiti come distanti, rendendoli fruibili e coinvolgenti.

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