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Gli Stati Uniti hanno avviato una nuova fase del loro impegno militare in Siria, ritirando alcune centinaia di soldati dalla regione nord-orientale del paese, dove ancora oggi è attiva una minaccia residua dello Stato Islamico (ISIS). Il contingente, che fino a poco fa contava circa 2.000 militari, verrà progressivamente ridotto a 1.400 uomini, con la possibilità di ulteriori tagli nei prossimi mesi. Tre delle otto basi attualmente in uso dalle forze americane saranno dismesse.
Il ritiro degli Stati Uniti dalla Siria, voluto fortemente dall’ex presidente Donald Trump, risponde a due motivazioni principali. La prima è di ordine strategico e politico: Trump ha sempre sostenuto che la guerra in Siria non è una priorità americana, e mira a concludere la presenza militare nel paese. La seconda ragione riguarda le speranze riposte nel nuovo corso politico siriano, guidato da Ahmed al Sharaa, figura emersa dalla transizione post-Assad e ritenuta da Washington un potenziale garante della stabilità futura della regione.
Le truppe americane sono presenti in Siria dal culmine del conflitto contro l’ISIS, che tra il 2014 e il 2019 aveva conquistato e governato ampie porzioni di territorio tra Siria e Iraq. A contribuire in modo determinante alla sua sconfitta fu la coalizione internazionale a guida statunitense, che operò a stretto contatto con le Forze Democratiche Siriane (SDF), una milizia prevalentemente curda.
Sebbene l’ISIS sia stato territorialmente sconfitto nel 2019, non è mai stato completamente eliminato: piccoli gruppi continuano a operare in modo clandestino, compiendo attentati nelle aree più isolate e instabili del paese.
Durante il primo mandato di Trump, il numero di militari americani fu ridotto a circa 900. Tuttavia, l’amministrazione Biden lo ha riportato a 2.000 negli anni successivi, in parte per contrastare le crescenti tensioni regionali esplose anche in seguito al conflitto tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza.
La caduta del regime di Bashar al Assad, avvenuta lo scorso dicembre, ha segnato una svolta nella situazione siriana. Con il nuovo governo al potere, l’ISIS ha perso terreno anche nelle sue aree storicamente più attive, come le regioni desertiche del centro del paese. Secondo l’analista Charles Lister, tra i più autorevoli esperti internazionali sulla Siria, gli attacchi dell’ISIS sono calati dell’80% e la loro letalità è diminuita del 97% a partire da dicembre 2024.
Ciononostante, la situazione rimane fragile. Lister avverte che la debolezza istituzionale del nuovo governo potrebbe offrire all’ISIS l’occasione per riorganizzarsi e tornare a essere una minaccia concreta.
Per prevenire un simile scenario, Washington sta cercando di facilitare un’intesa politica e militare tra l’esecutivo di al Sharaa e le SDF, che amministrano circa un terzo del territorio siriano nel nord-est del paese. Un primo passo è stato fatto a marzo, quando le due parti hanno firmato un accordo che prevede l’integrazione delle milizie curde all’interno dell’esercito nazionale siriano. L’attuazione dell’accordo sta proseguendo, con il progressivo ritiro delle SDF dalle loro posizioni strategiche.
L’obiettivo degli Stati Uniti è quello di lasciare una Siria stabile, unificata e in grado di gestire autonomamente la sicurezza interna, inclusa la lotta ai resti dell’ISIS. Tuttavia, una delle sfide più complesse riguarda i grandi campi di prigionia controllati dalle SDF, dove sono detenuti tra i 9.000 e i 10.000 ex combattenti dell’ISIS, insieme a circa 39.000 familiari. Si tratta di strutture altamente sorvegliate, ma che continuano a rappresentare un potenziale bersaglio per i jihadisti, nel tentativo di liberare i loro compagni detenuti.
La strada verso la stabilizzazione definitiva della Siria è ancora lunga, ma il ritiro americano segna l’inizio di una nuova fase in cui saranno soprattutto le forze locali a doversi assumere il peso della sicurezza e della ricostruzione.
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