Oggi: 4 Luglio 2025
1 Maggio 2025
3 minuti di lettura

La bufala della fabbrica dei cadaveri: la propaganda più crudele della Prima guerra mondiale

fabbrica dei cadaveri

Nel clima di tensione e terrore che accompagnò la Prima guerra mondiale, le trincee non furono l’unico campo di battaglia. Accanto ai fucili e ai gas, si combatteva una guerra altrettanto feroce: quella dell’informazione. È in questo contesto che nasce una delle fake news più clamorose della storia: la bufala della fabbrica dei cadaveri, secondo cui l’esercito tedesco avrebbe trasformato i corpi dei propri soldati caduti in sapone e altri prodotti industriali.

La guerra della propaganda

Durante la Grande Guerra, le potenze belligeranti compresero presto l’importanza della propaganda per mantenere alto il morale interno e screditare il nemico. Giornali, volantini, manifesti, film e vignette satiriche vennero usati come strumenti per plasmare l’opinione pubblica. La bufala della fabbrica dei cadaveri si inserisce in questa macchina mediatica, alimentata da una feroce ostilità tra la Triplice Intesa (Regno Unito, Francia e Russia) e gli Imperi Centrali (Germania e Austria-Ungheria).

Tra le prime menzogne diffuse ci fu quella che presentava l’invasione tedesca del Belgio come un’orrenda carneficina, con accuse di stupri, mutilazioni di bambini e crocifissioni. Ma il culmine dell’assurdo venne raggiunto nell’aprile 1917, quando due tra i più importanti quotidiani britannici, il Daily Mail e il Times, pubblicarono una notizia scioccante: la Germania stava riciclando i cadaveri dei propri soldati per produrre glicerina, grasso, fertilizzanti, mangime per animali e sapone.

Origine della bufala della fabbrica dei cadaveri

Secondo quanto riportato da questi quotidiani, la notizia proveniva da una fonte belga: il giornale L’Indépendance Belge, che a sua volta aveva tratto le informazioni da un altro quotidiano, La Belgique. Il tutto si basava su un reportage scritto da Karl Rosner, corrispondente di guerra tedesco, pubblicato il 10 aprile 1917 sul Berliner Lokal-Anzeiger.

Rosner descriveva una Kadaververwertungsanstalt, termine tedesco che significa letteralmente “fabbrica di trasformazione delle carcasse”. Tuttavia, nel testo originale, Rosner si riferiva chiaramente a carcasse animali, e non a corpi umani. In tedesco, infatti, “Kadaver” indica normalmente un animale morto, mentre per i cadaveri umani si usa “Leiche” o “Leichnam”.

Il fraintendimento — o la deliberata manipolazione — nacque nel passaggio linguistico tra il tedesco e l’inglese: il termine “Kadaver” venne tradotto in modo fuorviante, generando la convinzione che i tedeschi stessero smaltendo i propri soldati morti per sostenere lo sforzo bellico.

Il ruolo dei media e della disinformazione

Il sensazionalismo della notizia fece rapidamente il giro del mondo. La stampa britannica, con Lord Northcliffe — proprietario sia del Daily Mail che del Times — in prima linea, giocò un ruolo determinante nella diffusione e amplificazione della bufala. Northcliffe, soprannominato il “Napoleone della stampa”, aveva enormi legami con il governo e la propaganda ufficiale. La notizia venne ripresa anche da altri media alleati, contribuendo ad alimentare l’odio nei confronti della Germania.

Non tutti, però, accettarono la storia senza porsi domande. Il New York Times, già il 20 aprile 1917, pubblicò un articolo che smontava la bufala linguistica, spiegando che la parola “Kadaver” non si usa per i cadaveri umani. Ma la voce aveva già preso piede, sostenuta da un’opinione pubblica già incline a credere il peggio sul conto del nemico.

Una manipolazione voluta?

Il vero colpo di scena arrivò nel 1925, sette anni dopo la fine della guerra. Durante una cena al National Arts Club di New York, John Charteris, ex capo dell’intelligence britannica, rivelò di aver creato e diffuso ad arte la bufala della fabbrica dei cadaveri. Confessò di aver manipolato delle fotografie per costruire la narrazione e di averle inviate alla stampa di Shanghai, sperando così di spingere la Cina a entrare nel conflitto a fianco della Triplice Intesa.

Questa rivelazione sollevò pesanti interrogativi sull’effettivo coinvolgimento della stampa britannica. Gli studiosi Joachim Neander e Randal Marlin suggerirono che la bufala non fu il frutto di un errore di traduzione, ma di una strategia ben orchestrata tra giornalisti, politici e servizi segreti.

Il 2 dicembre 1925, il ministro degli Esteri britannico Austen Chamberlain dichiarò ufficialmente che la storia della fabbrica dei cadaveri non aveva alcun fondamento, chiudendo — almeno formalmente — il caso. Ma ormai il danno era fatto. Quella menzogna aveva contribuito a plasmare l’immagine della Germania come “barbara” e senza scrupoli.

Un caso emblematico di guerra mediatica

La storia della bufala della fabbrica dei cadaveri è oggi considerata uno degli esempi più eclatanti di disinformazione bellica. Dimostra quanto i confini tra verità, propaganda e menzogna possano diventare sfumati in tempo di guerra. Non solo si trattò di un errore linguistico, ma di una costruzione narrativa consapevole, che serviva interessi politici e strategici.

Questa vicenda ci insegna che, in ogni guerra, la verità è spesso la prima vittima. E che le fake news non sono un’invenzione recente: già nel 1917, parole, immagini e notizie venivano manipolate per influenzare l’opinione pubblica e giustificare scelte geopolitiche. Ricordare la bufala della fabbrica dei cadaveri ci aiuta a essere più critici verso ciò che leggiamo, soprattutto in tempi di crisi.

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Riminese, classe 1997. Direttrice editoriale di LaLettera22, un portale di informazione nato con l’obiettivo di raccontare la complessità del mondo attraverso l’approfondimento e la divulgazione di varie tematiche culturali.

Dopo la laurea in Lettere e culture letterarie europee presso l’Università di Bologna, ha proseguito il suo percorso accademico specializzandosi in Giornalismo e cultura editoriale all’Università di Parma. Da sempre appassionata di storia, geopolitica e comunicazione, ha trasformato il suo interesse in una missione divulgativa, lanciando il progetto Lettera22 sui social per rendere la cultura più accessibile e stimolare il dibattito su temi di attualità.

Oltre a dirigere il portale, lavora come articolista e social media manager, curando strategie editoriali e contenuti per il web. Il suo lavoro unisce analisi critica, narrazione e innovazione digitale, con l’obiettivo di avvicinare il pubblico a temi spesso percepiti come distanti, rendendoli fruibili e coinvolgenti.

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