Il caso Coldplay è solo l’ultimo segnale di una deriva collettiva che riguarda tutti noi.
Dalle piazze ottocentesche ai social network: l’analisi visionaria di Gustave Le Bon trova nuova linfa nella società della sorveglianza e dell’esposizione.
Chi era Gustave Le Bon, e perché ci riguarda ancora oggi
Tra i nomi che più hanno influenzato la comprensione del comportamento collettivo, Gustave Le Bon occupa un posto centrale. Medico, antropologo e psicologo sociale francese, è passato alla storia per La psychologie des foules (1895), un’opera che ha anticipato – con straordinaria lucidità – i meccanismi psicologici che regolano il comportamento delle masse.
Le Bon si pose una domanda fondamentale: Cosa accade alla mente individuale quando l’individuo si fonde in una folla? La sua risposta è al tempo stesso affascinante e inquietante: l’individuo, nella massa, perde sé stesso. Perde la propria coscienza critica, si lascia guidare dall’emozione e diventa parte di un organismo collettivo più grande, dominato dall’irrazionalità. È come se la somma di molte coscienze producesse, paradossalmente, una coscienza inferiore.
Quella che descrive Le Bon è una regressione psicologica: la folla non ragiona, reagisce; non valuta, giudica; non comprende, etichetta. E lo fa rapidamente, brutalmente, senza preoccuparsi delle conseguenze.
La folla secondo Le Bon: suggestione, contagio e smarrimento dell’Io
Il nucleo del pensiero di Le Bon si fonda su tre concetti chiave: suggestione, contagio mentale e anonimato.
- Suggestione: la folla è ipnotizzata da immagini, simboli, parole semplici. È attratta dall’effetto scenico, non dalla sostanza.
- Contagio mentale: le emozioni si propagano come un virus. Un sentimento – paura, entusiasmo, odio – si diffonde all’istante e si amplifica.
- Anonimato e deresponsabilizzazione: l’individuo nella folla si sente invisibile, protetto, autorizzato ad agire senza morale.
La folla, dunque, funziona secondo dinamiche primitive. Non importa il livello culturale del singolo, una volta immerso nella massa, anche l’intellettuale più razionale può agire come un istintivo. Ecco perché Le Bon considerava le folle pericolose e affascinanti allo stesso tempo. Capaci di costruire o distruggere imperi.
Dal corpo alla rete: la folla nel XXI secolo
Oggi, il concetto di “folla” ha assunto nuove forme. Le folle non si muovono più solo in piazza ma si sono sviluppate delle vere e proprie piazza online. Nelle dirette su Instagram, nei trend di TikTok, nelle guerre su X e nei commenti sotto un video diventato virale.
Non servono più striscioni o cori: bastano uno smartphone e una connessione.
Il web ha moltiplicato la portata delle teorie di Le Bon. La folla digitale ha le stesse caratteristiche di quella ottocentesca, ma è ancora più potente: veloce, sfuggente, pervasiva. Agisce 24 ore su 24, non ha geografia né confini. È ovunque e in nessun luogo. Può raggiungere chiunque ed è al contempo irraggiungibile.
L’algoritmo amplifica il contagio emotivo: premia ciò che divide, che fa indignare, che polarizza. I social media non sono neutrali: sono progettati per trasformare emozioni in traffico, coinvolgimento in profitto. E noi, spesso senza accorgercene, diventiamo strumenti di questa macchina.
Il risultato? Una società che oscilla tra isteria e apatia, tra esaltazione collettiva e condanna istantanea. Dove la complessità viene ridotta a slogan, e la verità a sensazione del momento.
Il caso Coldplay: quando la folla digitale diventa carnefice
L’episodio accaduto durante un recente concerto dei Coldplay in Italia è emblematico. Due persone, una coppia qualunque tra migliaia di spettatori, vengono inquadrate per qualche secondo dai maxischermi. In apparenza, un momento tenero. In poche ore, però, quelle immagini diventano virali e sotto il giudizio di tutti.
Senza conferme, senza verifiche, la folla digitale emette la propria sentenza. Ridicolizzazione, insulti, battute, meme. La loro vita privata diventa oggetto di consumo pubblico. Da spettatori a bersagli.
Ecco cosa colpisce: non il gesto in sé, ma la reazione collettiva. Non la notizia, ma il modo in cui è stata divorata e diventata proprietà di chiunque. È come se avessimo smesso di spiare dal buco della serratura per sfondare direttamente la porta. Due individui qualunque sono stati esposti, analizzati, giudicati da milioni di sconosciuti, senza alcuna possibilità di difendersi.
Non è la prima volta che accade. Ma è inquietante constatare quanto tutto questo ci sembri normale. Persino divertente. Come se la dignità altrui fosse un prezzo accettabile in cambio di un contenuto virale.
L’epoca dell’esposizione: la distopia in cui siamo immersi
La riflessione più angosciante è che, oggi, nessuno è davvero al sicuro. Non occorre essere famosi per finire in pasto all’opinione pubblica. Bastano pochi secondi, un’inquadratura, un fraintendimento. E la tua identità, o la tua reputazione, può essere travolta.
In questo scenario, il pensiero di Le Bon non è solo attuale: è urgente. Ci aiuta a decifrare il funzionamento di una folla che non ha più un corpo e nemmeno un cervello, ma solo occhi e dita. Che non grida in strada, ma nei commenti. Che non porta fiaccole, ma smartphone.
Siamo tutti parte di questo meccanismo. E al tempo stesso, siamo tutti potenziali vittime. La risata, il giudizio, l’indignazione collettiva sono solo anestetici momentanei che ci permettono di sentirci superiori, diversi, “salvi”. Ma è una salvezza illusoria.
Il vero pericolo, oggi, non è la folla in sé. È l’assenza di consapevolezza con cui vi partecipiamo. L’idea che basti uno schermo a proteggerci dalle responsabilità. L’illusione che il giudizio collettivo sia sempre giusto, solo perché condiviso.
Gustave Le Bon ci ricorda che la razionalità è fragile, e che l’individuo, per quanto istruito o lucido, può trasformarsi in massa con una facilità disarmante. Ma ci ricorda anche che la lucidità, la riflessione, il dubbio sono gli unici antidoti contro questa deriva.
Oggi più che mai, abbiamo bisogno di fermarci prima di giudicare. Di interrogarci prima di condividere. Di scegliere, ogni giorno, se essere spettatori consapevoli o comparse inconsapevoli nella prossima folla isterica.
Perché, prima o poi, potrebbe toccare a noi.
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