Nel 1867, l’Impero Russo e gli Stati Uniti conclusero un accordo che ha segnato profondamente le rispettive storie geopolitiche: la vendita dell’Alaska. Quell’operazione, che oggi appare come una delle transazioni più significative nella storia delle relazioni internazionali, sembrava inizialmente vantaggiosa solo per gli Stati Uniti.
Tuttavia, con il tempo, il valore strategico e le risorse naturali scoperte nell’Alaska hanno fatto emergere una riflessione sulla lungimiranza di tale scelta da parte della Russia, un tema che è tuttora oggetto di discussione, specialmente tra i nazionalisti russi.
Il contesto storico della vendita
L’Alaska, acquistata dagli Stati Uniti per una somma di 7,2 milioni di dollari nel 1867, era, all’epoca, un territorio remoto e scarsamente sviluppato. L’Impero Russo aveva iniziato la sua colonizzazione della regione già alla fine del XVIII secolo, ma si era limitato principalmente alla costa, dove aveva fondato piccoli insediamenti e chiese. Il territorio non era stato approfonditamente esplorato, e l’economia era prevalentemente basata sulla caccia alla pelliccia, un’attività che, pur essendo importante, non rendeva l’Alaska un investimento di alto valore.
La decisione di vendere: fattori strategici e geopolitici
Nel corso del XIX secolo, l’Alaska divenne sempre più un onere per la Russia. La sua posizione geografica la rendeva difficile da difendere e mantenere, soprattutto in considerazione della crescente rivalità con il Regno Unito, che aveva consolidato il proprio controllo sul Canada. Le preoccupazioni russe riguardo alla sicurezza dell’Alaska erano forti: l’idea che i britannici potessero invadere il territorio divenne una minaccia concreta. Questo, unito alla crescente difficoltà economica di mantenere un possedimento così lontano dalla capitale di San Pietroburgo, spinse la leadership russa a prendere in considerazione la vendita.
I negoziati tra Russia e Stati Uniti
Nel 1867, l’imperatore Alessandro II incaricò il diplomatico Eduard de Stoeckl di negoziare con il segretario di Stato degli Stati Uniti, William Seward, la cessione dell’Alaska. L’accordo fu raggiunto con una cifra che oggi potrebbe sembrare ridicola: 7,2 milioni di dollari, pari a circa 25 miliardi di dollari odierni. Nonostante il clima positivo tra le due nazioni, il trattato incontrò notevoli resistenze negli Stati Uniti.
La stampa statunitense definì l’acquisto una “follia“, appellandolo “ghiacciaia di Seward” o “giardino di orsi polari”. La Camera dei Rappresentanti, controllata dai Repubblicani, tentò a lungo di ostacolare l’accordo, ma infine la ratifica avvenne nel 1868, dopo un anno di discussioni politiche.
Le ricadute economiche e strategiche
Contrariamente alle aspettative, la vendita dell’Alaska si rivelò una decisione lungimirante per gli Stati Uniti. Nel 1896 fu scoperto l’oro, un evento che stimolò una massiccia migrazione verso la regione e diede inizio a un periodo di prosperità economica. Il vero boom, tuttavia, avvenne nel XX secolo con la scoperta di enormi riserve di petrolio e gas naturale. Grazie alla sua posizione strategica nell’Artico e alle ricchezze minerarie, l’Alaska divenne sempre più fondamentale per l’economia e la sicurezza degli Stati Uniti. Nel gennaio del 1959, l’Alaska fu ufficialmente ammessa come il 49° stato dell’Unione.
Ripensamenti e rimpianti russi
Nel corso del Novecento, la Russia ha spesso rivisitato la questione della vendita dell’Alaska. Sebbene la perdita di un avamposto strategico nel continente americano non abbia avuto immediate conseguenze geopolitiche, l’idea che la Russia avrebbe potuto trarre vantaggio da un maggiore controllo sulle risorse naturali dell’Artico è diventata un tema ricorrente. Negli ultimi anni, alcuni nazionalisti russi hanno sollevato l’idea di chiedere la restituzione del territorio. Nel 2014, Vladimir Putin si è espresso riguardo alla vendita definendola “a buon mercato”, anche se ha minimizzato il significato di tale dichiarazione, affermando che non sarebbe stato utile preoccuparsi troppo per quella decisione storica.
Nel 2020, il governo russo ha emesso un decreto per “proteggere le proprietà della Russia all’estero“, comprendendo, in modo ambiguo, anche le terre cedute in epoche precedenti, come l’Alaska. Questo provvedimento ha alimentato speculazioni su possibili rivendicazioni future, sebbene il governo degli Stati Uniti abbia prontamente dichiarato che l’Alaska non sarebbe mai stata restituita.
Un capitolo ancora aperto nella politica internazionale
Oggi, la vendita dell’Alaska è spesso evocata nelle discussioni sulla storia delle relazioni tra Stati Uniti e Russia, e il territorio stesso continua a essere un simbolo di un’epoca in cui la geopolitica era segnata da alleanze e rivalità inaspettate. Quando, il 15 agosto 2025, i presidenti Donald Trump e Vladimir Putin si incontreranno in Alaska, il ricordo di quell’accordo, apparentemente insignificante all’epoca, rivelerà ancora una volta il suo peso storico. Sebbene la vendita dell’Alaska sembri una questione ormai sepolta nel passato, le sue implicazioni geopolitiche e le sue ricadute economiche rimangono parte integrante della narrativa internazionale.
La vendita dell’Alaska agli Stati Uniti è uno degli esempi più emblematici di come le decisioni geopolitiche possano avere conseguenze inaspettate. Quell’accordo che un tempo sembrava una mossa prudente da parte della Russia si è trasformato in un capitolo che continua a fare riflettere e a suscitare dibattito, tanto in Russia quanto negli Stati Uniti. Il rimpianto per la perdita di un pezzo così strategico del continente americano non è mai svanito del tutto, e, in un mondo sempre più interconnesso, la storia della vendita dell’Alaska rimane un monito sui cambiamenti imprevedibili degli equilibri internazionali.
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