Salvador Allende: il sogno interrotto del socialismo democratico
Nel 1970, per la prima volta nella storia dell’America Latina, un socialista veniva eletto democraticamente alla guida di un Paese: il Cile. Salvador Allende, medico, senatore e leader della coalizione di sinistra Unidad Popular, conquistò la presidenza dopo una lunga carriera politica e tre tentativi falliti. Il suo progetto era ambizioso quanto rivoluzionario: costruire una società più giusta attraverso la “via cilena al socialismo”, senza rompere con le istituzioni democratiche né abolire il pluralismo politico. Non si trattava di una rivoluzione armata, ma di una trasformazione profonda e popolare, condotta nel rispetto della legge.
La vittoria di Allende non fu né semplice né netta. Ottenne il 36,6% dei voti, davanti al democristiano Radomiro Tomic (28%) e al conservatore Jorge Alessandri (34,9%). In assenza di maggioranza assoluta, fu il Congresso a decidere chi avrebbe assunto la presidenza. I parlamentari della Democrazia Cristiana votarono a favore di Allende in cambio di un “Statuto di Garanzie Costituzionali” che il nuovo presidente si impegnava a rispettare. Era il compromesso necessario per avviare un esperimento politico unico nel suo genere, osservato con speranza dai popoli del Sud globale e con crescente preoccupazione da Washington.
Il governo del popolo: riforme per redistribuire diritti e ricchezza
Fin dal primo anno, Allende avviò un ampio programma di riforme economiche e sociali che mirava a ridurre le disuguaglianze e a rafforzare il ruolo dello Stato nell’economia. La più simbolica fu la nazionalizzazione delle miniere di rame, il bene più prezioso del Paese. Fino ad allora, erano controllate da multinazionali statunitensi come Anaconda e Kennecott. Con un voto unanime del Congresso, il Cile dichiarò il rame “patrimonio nazionale” e ne assunse il pieno controllo. Le compagnie statunitensi furono indennizzate, ma solo dopo aver dedotto gli “utili straordinari” realizzati negli anni precedenti: un gesto che irritò profondamente Washington.
A fianco della nazionalizzazione del rame, il governo promosse la socializzazione del sistema bancario e il controllo statale sulle industrie strategiche. Furono espropriati e statalizzati oltre 150 grandi imprese private. L’obiettivo era costruire un “settore statale forte” che fungesse da motore di sviluppo e distribuzione della ricchezza.
Ma Allende non si limitò all’industria. Accelerò la riforma agraria, iniziata con lentezza nei governi precedenti, redistribuendo milioni di ettari ai contadini organizzati in cooperative. Questo permise di iniziare a smantellare il potere dei latifondisti e dare autonomia alimentare a migliaia di famiglie rurali.
Sul piano sociale, i risultati furono immediati e tangibili. Il potere d’acquisto dei salari aumentò del 40% nei primi due anni. La disoccupazione calò drasticamente. Il governo introdusse il diritto a un litro di latte al giorno per ogni bambino, ampliò i programmi di edilizia popolare e rafforzò il sistema sanitario pubblico, rendendo gratuite molte prestazioni mediche. Sul fronte educativo, furono introdotti libri gratuiti, ampliato l’accesso all’università, aperte nuove biblioteche e potenziata l’editoria pubblica attraverso la casa editrice Quimantú, che mise milioni di libri a disposizione delle famiglie più povere a prezzi simbolici.
Quella che si stava costruendo era una società orientata alla redistribuzione del sapere, della salute e della dignità. Una politica del popolo, non dei privilegiati.
Il timore delle élite: un pericolo per gli interessi globali
Tuttavia, ogni passo verso una maggiore giustizia sociale corrispondeva a un passo verso l’isolamento geopolitico. Gli Stati Uniti, in piena Guerra Fredda, vedevano nel governo di Allende non solo una minaccia ideologica, ma un precedente pericoloso. Se un Paese latinoamericano poteva diventare socialista rispettando le regole della democrazia, allora il modello statunitense di sviluppo neoliberista rischiava di perdere credibilità.
Il presidente Nixon, insieme al suo consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger, considerò fin da subito Allende una “minaccia straordinaria”. Il timore non era che il Cile si trasformasse in una dittatura comunista come Cuba, ma che dimostrasse al mondo che esisteva un’altra via: pacifica, popolare e autonoma. I documenti desecretati del National Security Archive dimostrano che già nel 1970 la CIA ricevette l’ordine di “far fallire l’economia cilena” e “impedire a ogni costo l’insediamento di Allende”.
Le multinazionali colpite dalle nazionalizzazioni, in particolare quelle del rame, fecero pressione sulla Casa Bianca perché agisse. Fu così che prese forma una strategia di sabotaggio economico: blocco degli aiuti internazionali, ritiro degli investimenti, campagne mediatiche e sostegno occulto all’opposizione interna. Il FMI e la Banca Mondiale chiusero i rubinetti dei finanziamenti. L’economia cilena, fortemente dipendente dall’export e dal credito estero, cominciò a vacillare.
All’interno del Paese, le forze conservatrici reagirono con forza. Le élite economiche, la borghesia urbana, la destra politica e parte della Chiesa cattolica iniziarono a osteggiare il governo con ogni mezzo. Scioperi organizzati, serrate dei commercianti, boicottaggi dei trasporti e degli approvvigionamenti furono sistematicamente sostenuti da fondi esterni. La stampa privata, controllata da grandi gruppi editoriali, intensificò la campagna di delegittimazione del governo.
Un golpe costruito nel tempo
Il clima si fece via via più teso. Le riforme sociali, pur migliorando la vita di milioni di persone, colpirono duramente i poteri consolidati. L’inflazione aumentò, in parte per le contromisure esterne e interne, e l’economia entrò in crisi. La polarizzazione divenne estrema, e la vita politica fu paralizzata dal conflitto tra il potere esecutivo e il Congresso, dove Allende non aveva la maggioranza. Aumentarono le manifestazioni, i disordini, e le tensioni militari.
La CIA, nel frattempo, intensificava i contatti con alti gradi dell’esercito cileno. Ma la realtà era che, almeno fino all’ultimo, una parte significativa delle forze armate restava leale alla Costituzione. Il generale René Schneider, capo dell’esercito nel 1970, fu assassinato da un gruppo di militari golpisti appoggiati dagli Stati Uniti perché si era rifiutato di intervenire contro Allende. Il suo successore, il generale Carlos Prats, anche lui fedele all’ordine democratico, si dimise sotto pressione pochi mesi prima del colpo di Stato.
Solo con la nomina di Augusto Pinochet a capo delle forze armate, pochi giorni prima del golpe, si completò il quadro. Fino ad allora, Pinochet era considerato un uomo prudente, persino vicino alla legalità. Ma il 11 settembre 1973 guidò il colpo di Stato militare che pose fine al governo di Allende.
Quel giorno, i caccia dell’aeronautica bombardarono il palazzo della Moneda. Secondo la versione ufficiale, Allende si tolse la vita con un fucile donatogli da Fidel Castro, preferendo morire piuttosto che arrendersi. Ma attorno alla sua morte permangono ancora dubbi: in molti, allora come oggi, ritengono che possa essere stato assassinato dai militari e che la narrazione del suicidio sia servita a coprire un’esecuzione. Nelle sue ultime parole, trasmesse via radio, dichiarò: “La storia è nostra, e la fanno i popoli”.
Un esperimento soffocato: democrazia contro profitto
Il golpe del 1973 fu il frutto di una lunga costruzione, tanto interna quanto esterna. Non fu solo il risultato del conflitto politico cileno, ma anche e soprattutto dell’ingerenza straniera nei processi democratici di un Paese sovrano. Il governo di Allende rappresentava un pericolo non perché violasse i diritti umani, ma perché metteva in discussione la distribuzione del potere economico a livello globale.
Nel Cile di Allende non vi furono prigionieri politici, torture, né esecuzioni. La stampa era libera, l’opposizione poteva esprimersi, e le elezioni venivano regolarmente svolte. Era, a tutti gli effetti, una democrazia più estesa che in molti Paesi dell’epoca. Eppure fu abbattuta con la forza, nel silenzio complice di gran parte della comunità internazionale.
Il popolo cileno, che aveva creduto nella possibilità di un futuro più equo, fu poi sottoposto a 17 anni di dittatura militare, durante i quali furono cancellati i diritti civili, smantellate le riforme sociali, privatizzata l’economia e repressa ogni forma di dissenso. Migliaia di oppositori furono uccisi, torturati, fatti sparire.
Oggi, ricordare Salvador Allende non significa idealizzare il suo governo, che ebbe senza dubbio anche difficoltà e contraddizioni. Significa però riconoscere il valore di un progetto politico che cercò di coniugare giustizia sociale, democrazia e sovranità. Un progetto che dimostrò che era possibile pensare un’altra economia, un’altra società.
Un progetto che fu soffocato perché non serviva i ricchi, ma serviva i molti.
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