Adriana Smith non c’è più.
I suoni dei macchinari hanno smesso di risuonare nella sua camera d’ospedale, e ora c’è un’altra vita che sta lottando per sopravvivere: quella di suo figlio.
Dopo mesi di agonia da parte della famiglia della giovane infermiera, Adriana Smith, già dichiarata morta cerebralmente lo scorso febbraio, ha “partorito” il 13 giugno ed è stata staccata dalle macchine il 17.
La bimba è stata chiamata Chance: “speranza”, “opportunità”. Ma questa speranza sta lottando per la sua stessa vita incastrato tra i macchinari dell’ospedale Emory Hospital, in Georgia. Salvato tramite un cesareo d’urgenza, il piccolo è nato prematuro e pesa solo 820 grammi.
Adesso si trova in terapia intensiva neonatale e la sua è una costante lotta per rimanere in vita. Secondo le parole di April Newkirk, la nonna del piccolo, ai giornalisti “Dovrebbe farcela.”, ma sembra un incubo senza fine per l’intera famiglia.
Questo incubo va avanti da febbraio di quest’anno, quando Adriana Smith, giovane infermiera di 31 anni, dopo essersi rivolta a un ospedale a causa di forti mal di testa, è stata dichiarata morta cerebralmente all’Emory University Hospital a causa di coaguli di sangue nel cervello. Era incinta di 12 settimane.
Dopo l’accertamento di morte cerebrale, i medici dello stato della Georgia, uno dei più severi contro l’aborto e che vieta l’accesso alla pratica dopo la sesta settimana di gestazione, hanno deciso di agire : Adraiana Smith sarebbe stata tenuta in vita da macchinari in modo tale da portare a termine la gravidanza e partorire.
In questo macabro scenario, i parenti della giovane donna non avrebbero potuto avere voce in capitolo, in quanto il desiderio di semplicemente interrompere la gravidanza sarebbe andato contro alla legge firmata nel 2019 dal governatore repubblicano Brian Kemp ed entrata in vigore solo nel 2022 dopo l’abolizione della sentenza Roe v. Wade, dove si vieta l’accesso all’aborto una volta rilevata attività cardiaca del feto.
“Questa decisione sarebbe dovuta spettare a noi” ha ripetuto più volte la madre di Adriana Smith, “Noi vogliamo il bambino. è una parte di mia figlia – ma la decisione sarebbe dovuta esser presa da noi, non dallo stato.”
E per quanto assurda questa situazione possa sembrare, Adriana Smith non è stata la prima donna ad esser tenuta in “vita” per portare a termine una gravidanza.
Nel novembre del 2013, il caso di Marlise Muñoz portò per primo il problema agli occhi del pubblico. Per fermare questa sofferenza familiare, Erick Munoz dovette chiedere un’ordinanza del tribunale per interrompere tutti i supporti vitali alla moglie Marlise, che era incinta di 14 settimane quando, secondo quanto riferito dal marito, i medici del John Peter Smith Hospital di Fort Worth (Texas) l’hanno dichiarata cerebralmente morta.
E ora il “miracolo della vita”, come viene definito da molti senatori repubblicani il caso del piccolo Chance, non diventa altro che la celebrazione di una vita compromessa fin dal primo respiro.
Non si è sicuri del risultato della terapia intensiva a cui il neonato è sottoposto. Non si è sicuri di ciò che sarà della sua salute fisica o mentale, e i medici si sono opposti a rilasciare qualsiasi tipo di dichiarazione, in quanto “Hanno solo seguito la legge”.
Ma quale legge può davvero dirsi giusta quando, nel tentativo di difendere la vita, finisce per mettere a rischio la stessa? Che valore ha una norma che impone il prolungamento artificiale di una gravidanza, anche quando il corpo che la ospita è ormai privo di vita? In un paradosso tutto contemporaneo, si continua a considerare l’aborto come un atto “contro natura”, mentre proprio l’intervento medico che forza il proseguimento di una gravidanza in un corpo cerebralmente morto viene legittimato come difesa della vita. Ma di quale vita stiamo parlando, e a quale prezzo?
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