Siamo nei primi decenni del Novecento, l’era in cui la psicologia vuole dimostrare al mondo di poter diventare una scienza “esatta”, fatta di esperimenti, misurazioni e prove tangibili. È in questo clima che il comportamentista John B. Watson, professore alla Johns Hopkins University, decide di rispondere a una domanda cruciale: è possibile insegnare la paura?
L’esperimento del Piccolo Albert
Watson, affiancato dalla ricercatrice Rosalie Rayner, prende ispirazione dai famosi studi sul condizionamento classico di Ivan Pavlov, quello dei cani che salivano al suono di una campanella. Ma stavolta, il soggetto non è un animale: è un bambino di circa 9 mesi, soprannominato “Albert B.” o, come lo ricorderà la storia, il Piccolo Albert.
Il bambino, scelto per la sua apparente serenità e mancanza di paure, viene esposto a una serie di oggetti: un topo bianco, un coniglio, un cane, una scimmia, maschere e altro ancora. Inizialmente, Albert reagisce con curiosità, talvolta con il sorriso. Nulla lo spaventa. Ma l’esperimento vero comincia quando Watson introduce un elemento disturbante: ogni volta che Albert tocca il topo, un assistente colpisce con forza una barra di metallo proprio dietro di lui, producendo un fortissimo rumore. Il bambino, ovviamente, sobbalza, piange, si agita. Dopo un po’, basta la sola presenza del topo a farlo piangere: la paura si è “insegnata”.
Questo è il cuore dell’esperimento del Piccolo Albert: dimostrare che un’emozione naturale (la paura di un rumore forte) può essere associata artificialmente a uno stimolo neutro (il topo bianco) fino a renderlo uno stimolo condizionato. Ma c’è di più: Albert inizia a temere anche altri oggetti pelosi e bianchi, come un cane, un cappello di Babbo Natale e persino una pelliccia. È il fenomeno della generalizzazione.
La domanda è: Watson ha davvero provato tutto questo in modo scientificamente valido? O è stato più show che metodo? Per decenni, molti psicologi si sono interrogati sull’attendibilità dell’esperimento, anche perché Albert sparì presto dalla scena: nessuna fase di estinzione fu registrata, e il bambino venne portato via dall’ospedale prima che il condizionamento potesse essere invertito.
Etica, identità e dubbi: un caso che non smette di far discutere
L’esperimento del Piccolo Albert è uno di quei casi che fanno da spartiacque nella storia della psicologia scientifica. Se da un lato aprì nuove strade allo studio delle emozioni attraverso l’osservazione diretta, dall’altro sollevò — e continua a sollevare — enormi interrogativi etici.
Innanzitutto, non c’era il concetto di consenso informato. I genitori di Albert (probabilmente la madre, impiegata nell’ospedale stesso) non risultano aver firmato nulla. Il bambino non fu seguito dopo l’esperimento. Cosa ne è stato di lui? Per molto tempo non lo si è saputo. Poi, nel 2009, alcuni studiosi hanno proposto che il vero nome fosse Douglas Merritte, un bimbo affetto da idrocefalia, morto a soli sei anni. Questo avrebbe reso l’intero esperimento ancora più problematico: Albert non solo era un soggetto vulnerabile per età, ma forse anche per condizioni neurologiche pregresse.
Altri invece sostengono che fosse William Albert Barger, un uomo vissuto fino a 87 anni, che secondo alcuni familiari “non amava molto gli animali”. La verità, probabilmente, non sarà mai accertata con certezza. Ma la questione dell’identità è solo la punta dell’iceberg.
L’aspetto più inquietante è che Watson non cercò mai di eliminare la paura che aveva installato in Albert. Nessun tentativo di decondizionamento, nessuna cura. Un’azione che oggi sarebbe non solo scientificamente inaccettabile, ma legalmente perseguibile. Il caso è spesso citato nei corsi di psicologia come esempio da manuale di ciò che non si deve fare: assenza di follow-up, danno emotivo potenziale a un minore, e uso di soggetti umani senza tutele.
Eppure, l’esperimento continua ad essere studiato, perché rivela una verità fondamentale: la paura si può apprendere. E con essa, forse, anche molte delle nostre insicurezze, ansie, fobie. Un bambino che piange davanti a un cane perché ha assistito da piccolo a una scena spaventosa, un adulto che trema in ascensore dopo essere rimasto bloccato da bambino: tutto questo può avere radici nel condizionamento.
Il Piccolo Albert: cosa ci insegna oggi
L’eredità del Piccolo Albert va ben oltre la lezione comportamentista. Se oggi consideriamo le fobie apprese, i disturbi d’ansia infantili o l’efficacia delle terapie comportamentali, una parte delle fondamenta viene anche da questo controverso esperimento. Nonostante i suoi limiti metodologici, ha avuto un impatto duraturo sulla psicologia applicata.
Ad esempio, ha ispirato il lavoro di Mary Cover Jones, che nel 1924 realizzò un esperimento opposto: aiutare un bambino a perdere la paura dei conigli con un processo graduale e positivo, l’antenato della moderna desensibilizzazione sistematica. Ed è alla base di molte terapie cognitivo-comportamentali usate ancora oggi per trattare le fobie, l’ansia sociale o il disturbo post-traumatico da stress (PTSD).
Il caso Albert ha anche influenzato il dibattito pubblico sulla ricerca con soggetti umani, portando alla nascita di comitati etici, regolamenti severi e normative come il codice etico dell’APA o il Belmont Report.
Infine, ha acceso una riflessione importante: quanto del nostro comportamento è imparato? Quanto invece è innato? Albert non aveva paura del topo all’inizio, ma dopo poche associazioni l’ha temuto profondamente. Questo cambia il modo in cui pensiamo alla costruzione dell’identità, al ruolo dell’ambiente sull’individuo e al peso delle esperienze precoci.
Se oggi parliamo di trauma infantile, attaccamento, imprinting emotivo, parte di quel vocabolario nasce anche da esperienze come questa. Forse oggi Albert sarebbe protetto, seguito, aiutato. Ma proprio per questo, il suo esperimento ha avuto un senso: ha posto le domande giuste, anche se in un modo profondamente sbagliato.
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