Dal 2 marzo 2025, nella Striscia di Gaza si muore di fame. Non è un modo di dire, non è una metafora: si muore letteralmente per mancanza di cibo, acqua, medicine. Per la prima volta, anche i camion degli aiuti, bloccati ai valichi, non arrivano più. Gaza è diventata un’enclave dimenticata sotto assedio totale, in un mondo che sembra ormai anestetizzato dalla sofferenza.
Un conflitto che non ha più volto né tempo
La guerra tra Israele e Palestina è una delle più lunghe, complesse e irrisolte della storia contemporanea. Ma ridurre la tragedia umanitaria in corso a un mero conflitto tra due entità politiche significherebbe ignorare il dolore umano, le storie spezzate, i bambini che crescono tra le macerie, le madri che scavano a mani nude per ritrovare i propri figli sotto i detriti.
Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, che ha causato centinaia di morti e un’ondata di terrore in Israele, Tel Aviv ha avviato un’operazione militare su larga scala con l’obiettivo dichiarato di smantellare Hamas. Ma a pagare il prezzo più alto, come spesso accade, è la popolazione civile. Oggi Gaza è un territorio devastato, senza futuro, e soprattutto senza presente.
La fame come arma di guerra
Il blocco totale imposto dal governo israeliano ha interrotto ogni forma di aiuto umanitario. Niente cibo, niente medicinali, niente carburante. Due milioni di persone, in gran parte sfollate, sono costrette a sopravvivere con quello che resta. E quel che resta non è quasi nulla.
Il Programma Alimentare Mondiale ha esaurito le scorte. L’UNRWA, la principale agenzia ONU attiva sul campo, ha finito la farina. Cucine comunitarie e taqiya (piccoli centri autogestiti) non riescono più a fornire pasti regolari. I prezzi del cibo sono aumentati fino al 700%. Un sacco di farina può costare più di uno stipendio mensile. E mentre le famiglie si accampano nelle scuole distrutte o nei campi improvvisati, le code per un piatto di lenticchie diventano l’unica certezza della giornata.
Quando si parla di Gaza, spesso si dimentica che si tratta di un’area di appena 365 km², grande quanto una città media italiana, dove vivono stipate due milioni di persone, più della metà delle quali sono bambini. Non esiste via di fuga: Gaza è chiusa da ogni lato. Ogni tentativo di scappare è una roulette russa. Ogni notte può essere l’ultima.
L’idea che una crisi del genere si consumi nell’indifferenza generale è insopportabile. È difficile, per chi guarda da fuori, comprendere davvero cosa voglia dire vivere in uno spazio bombardato quotidianamente, senza corrente, senza cure mediche, senza pane. Ma si può – e si deve – provare a immaginare. Perché l’empatia è l’unica difesa contro la disumanizzazione.
Un sistema sanitario al collasso, bambini malnutriti e ospedali distrutti
Il settore sanitario è al collasso: oltre un terzo dei farmaci essenziali non è più disponibile. I pochi ospedali ancora attivi sono sovraffollati, colpiti dai raid o a corto di elettricità e acqua potabile. I medici, quando non muoiono anche loro, lavorano senza anestesia, senza bende, senza garze.
Nel solo mese di marzo, oltre 3.700 casi di malnutrizione infantile sono stati segnalati. Ma si tratta solo dei bambini che riescono a raggiungere un centro medico: molti altri, semplicemente, scompaiono nel buio.
Secondo le stime più recenti, le vittime palestinesi superano le 52mila. Oltre 15mila sono bambini. Cifre che non dovrebbero appartenere a nessun bollettino di guerra, men che meno a uno che il mondo conosce da decenni e ha scelto, spesso, di ignorare. Il direttore della Croce Rossa, Pierre Krähenbühl, ha parlato di un «nuovo inferno» che ci perseguiterà per decenni. E ha ragione. Non solo per i morti, ma per i vivi che dovranno ricostruire dalle ceneri una vita che non è mai cominciata davvero.
Il dovere di non restare in silenzio
In questa crisi disumana, la comunità internazionale resta paralizzata. Le risoluzioni ONU si susseguono, ma non cambiano la realtà sul campo. Gli appelli delle ONG cadono nel vuoto. I governi tentennano, si schierano, si lavano le mani. Ma il tempo non aspetta.
Gaza non può più aspettare. Ogni ora, ogni giorno in più di assedio è una condanna a morte per centinaia di innocenti. Non si può più restare neutrali di fronte all’uso della fame come arma, alla distruzione deliberata delle infrastrutture civili, alla sistematica negazione della dignità umana.
Oggi, chi ha voce deve usarla. Chi ha mezzi deve mobilitarsi. La solidarietà non è un atto di carità, ma un imperativo morale. Perché, come ci ha insegnato la storia, ogni volta che abbiamo voltato lo sguardo altrove, l’umanità ha perso qualcosa di sé.
Gaza è il volto della nostra responsabilità. Sta a noi decidere se vogliamo guardarlo in faccia o continuare a fingere che non esista.
Aiutaci a far nascere il Progetto Editoriale LaLettera22, contribuisci alla raccolta fondi