All’inizio degli anni Novanta, la Bosnia Erzegovina fu teatro di un conflitto spietato nato dal crollo della Jugoslavia. La convivenza tra bosgnacchi (musulmani), serbi (ortodossi) e croati (cattolici), che per decenni avevano condiviso lo stesso territorio, esplose in una guerra brutale. Dopo la dichiarazione d’indipendenza della Bosnia nel 1992, i serbi bosniaci – appoggiati da Belgrado – risposero militarmente, tentando di creare una propria entità autonoma: la Republika Srpska. Tra i primi obiettivi della loro offensiva ci fu la regione orientale della Drina, e in particolare Srebrenica, dove i bosgnacchi vennero presi di mira con inaudita violenza.
Nel 1993, l’ONU designò Srebrenica come “area sicura”, ma le forze internazionali dispiegate – in gran parte soldati olandesi del Dutchbat – non furono mai in grado di proteggere davvero i civili. Circondata, isolata e sovraffollata da migliaia di profughi interni, la città sopravvisse tra attacchi continui, carestia e disperazione, mentre i rifornimenti umanitari erano insufficienti e i tentativi di evacuazione troppo rari.
Luglio 1995: la caduta di Srebrenica
Nel luglio del 1995, la guerra in Bosnia durava ormai da oltre tre anni. Srebrenica, città simbolo della resistenza bosgnacca nell’est della Bosnia Erzegovina, era da tempo accerchiata dalle truppe serbo-bosniache, guidate dal generale Ratko Mladić. Isolata, sovraffollata da rifugiati, in costante emergenza alimentare e medica, Srebrenica era stata dichiarata “area protetta” dall’ONU già nell’aprile 1993. Ma nella pratica, quella protezione si era rivelata illusoria.
Il contingente ONU di stanza a Potočari, nei pressi della città, era composto da poco più di 400 caschi blu olandesi del battaglione Dutchbat III. Erano mal equipaggiati, con regole d’ingaggio molto restrittive e nessuna autorizzazione a rispondere in maniera efficace agli attacchi. I rifornimenti arrivavano a intermittenza, le comunicazioni con il comando ONU erano lente e burocratiche, e ogni decisione richiedeva una catena di approvazione internazionale che si scontrava con la rapidità e l’aggressività dell’esercito serbo-bosniaco.
Il 6 luglio 1995, le forze della Vojska Republike Srpske (VRS), l’esercito della Republika Srpska, lanciarono un’offensiva coordinata su più fronti per prendere il controllo di Srebrenica. Le truppe attaccarono le posizioni difensive bosgnacche a sud della città, sfondandole nel giro di pochi giorni. L’avanzata fu fulminea: l’8 luglio erano già a pochi chilometri dal centro abitato. Le richieste di aiuto inoltrate dal comandante del Dutchbat, il tenente colonnello Thom Karremans, rimasero sostanzialmente inascoltate. Solo il 10 luglio furono autorizzati limitati bombardamenti NATO su alcune postazioni serbe: un intervento tardivo e di scarsa entità, che non fermò l’assalto.
L’11 luglio, alle ore 17:00 circa, Ratko Mladić entrò a Srebrenica insieme ai suoi uomini, accolto da una troupe televisiva serba. Davanti alle telecamere, dichiarò che la città era “finalmente tornata sotto il controllo serbo” e promise vendetta per le “offese subite dai serbi nei secoli passati”, facendo riferimento alla dominazione ottomana: un linguaggio fortemente carico di retorica nazionalista e revanscista.
Nel giro di poche ore si generò una crisi umanitaria senza precedenti. Circa 25.000–30.000 civili, soprattutto donne, bambini e anziani, si riversarono verso la base ONU di Potočari per cercare protezione. Le immagini di famiglie accampate nel fango, sotto il sole, senza cibo né acqua, fanno parte ancora oggi della memoria collettiva della tragedia. Le forze del Dutchbat, sopraffatte dal numero e dalla pressione esterna, si trovarono a negoziare direttamente con Mladić per evitare un massacro generalizzato. I militari serbi, nel frattempo, iniziarono sistematicamente a separare gli uomini e i ragazzi sopra i 12 anni dal resto della popolazione.
Parallelamente, tra i 10.000 e i 15.000 uomini bosgnacchi – molti dei quali ex difensori della città o semplici civili terrorizzati – tentarono di fuggire a piedi attraverso i boschi verso la città di Tuzla, controllata dall’esercito bosniaco. La cosiddetta “marcia della morte” fu segnata da imboscate, bombardamenti, esecuzioni sommarie e catture. Solo una piccola parte riuscì a raggiungere la salvezza; molti furono intercettati, imprigionati e poi giustiziati nei giorni successivi.
La caduta di Srebrenica avvenne sotto gli occhi del mondo. L’inerzia dell’ONU e della comunità internazionale fu lampante. I soldati olandesi si ritirarono senza opporre resistenza, firmarono accordi con Mladić e in alcuni casi fornirono addirittura carburante e mezzi logistici per il trasporto dei civili, ignari – o consapevoli – che quegli autobus avrebbero portato centinaia di uomini verso la morte. La fotografia simbolo di quei giorni mostra Thom Karremans che brinda con Mladić: un’immagine che divenne il simbolo dell’impotenza dell’ONU e dell’umiliazione morale del diritto internazionale.
Lo sterminio e la scoperta delle fosse comuni
Nei giorni successivi, i prigionieri furono sistematicamente giustiziati in diversi luoghi, spesso nelle scuole o nei magazzini delle aree rurali vicine. I loro corpi vennero poi sepolti in fosse comuni e successivamente spostati in nuovi siti, per nascondere le prove. Le cifre dell’orrore parlano di oltre 8.000 uomini e ragazzi bosgnacchi uccisi. Le stime ufficiali, confermate dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY) e dalla Corte Internazionale di Giustizia, riconoscono questi eventi come genocidio.
Un video agghiacciante rimasto nella memoria collettiva mostra Ramo Osmanović chiamare il figlio Nermin dai campi dove era stato preso prigioniero: la scena si è trasformata in simbolo del dolore di un’intera comunità. A Sarajevo oggi esiste un monumento dedicato a quel momento, con l’incisione “Nermine, dođi!” (“Vieni, Nermin!”).
Nel 2007, la Corte Internazionale di Giustizia condannò la Serbia per non aver fatto nulla per prevenire il genocidio, pur non attribuendole una responsabilità diretta. L’unità paramilitare degli Scorpioni, coinvolta negli eccidi, aveva legami con i servizi serbi, ma il ruolo esatto di Belgrado resta ancora oggetto di dibattito tra gli storici.
La memoria, trent’anni dopo
Negli anni seguenti, centinaia di fosse comuni sono state localizzate e circa 7.000 vittime sono state identificate grazie all’analisi del DNA condotta dalla Commissione Internazionale per le Persone Scomparse. Ogni 11 luglio, nel memoriale di Potočari, nuove sepolture completano questo processo di riconoscimento che sembra non concludersi mai. Si stima che circa 1.000 persone manchino ancora all’appello.
Il genocidio di Srebrenica ha segnato una svolta anche nella guerra: la sua brutalità spinse finalmente la NATO a intervenire con bombardamenti mirati contro le forze serbo-bosniache. Dopo la fine del conflitto, numerosi responsabili furono condannati: Ratko Mladić, Radovan Karadžić e altri alti funzionari della Republika Srpska sono stati giudicati colpevoli di crimini contro l’umanità e genocidio.
Srebrenica è oggi non solo un luogo di lutto, ma anche un monito per l’Europa: che nessuna protezione internazionale è efficace senza volontà politica, e che l’odio etnico, quando ignorato, può generare le peggiori atrocità.
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