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13 Giugno 2025
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Giulio Andreotti: un enigma del potere italiano

giulio Andreotti

Della vita di Giulio Andreotti, soltanto luogo e date di nascita e morte – Roma, 1919-2013 – possono dirsi con assoluta certezza.

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Uomo dibattuto, chiave della storia politica italiana del XX secolo, e una personalità che ancora oggi suscita interrogativi e riflessioni, raffigurando il volto più controverso della democrazia moderna italiana.

L’ascesa del “Divo”

“[…] da giovanotto non raggiungevo nemmeno il minimo di circonferenza toracica. Il maggiore che mi visitò mi disse: «Lei non durerà sei mesi.» Quando diventai ministro della Difesa, cercai subito quel maggiore. Volevo prendermi il gusto di invitarlo a colazione per dimostrargli che ero vivo. Ma non fu possibile. Era morto lui.”

Giulio Andreotti in un’intervista con Oriana Fallaci

Di umili origini, Andreotti si fece strada molto rapidamente dei circoli della Federazione dei Cattolici, unico partito politico che non l’avrebbe legato all’ambito fascista della politica italiana degli anni ‘40. Questo filo che lo lega al mondo cattolico rimarrà una parte costante della sua politica, divenendo presto uno dei volti più riconosciuti alla fondazione del partito della Democrazia Cristiana.

La sua passione politica nacque dall’incontro con Alcide De Gasperi, avvenuto nel 1944, i presso la biblioteca della Santa Sede dove un appena diciannovenne Andreotti era andato per fare una ricerca sulla Marina vaticana e De Gasperi gli disse: «Ma lei non ha nulla di meglio da fare?»

La sua stima nei confronti di De Gasperi rimase un punto saldo per tutta la sua carriera politica e vita personale, e questo rispetto, insieme ad un acume ben riconoscibile, lo portarono a diventare uno stretto collaboratore dello stesso De Gasperi, come suo sottosegretario, contribuendo a consolidare la nascente repubblica italiana.

La sua vita politica

Eletto all’Assemblea Costituente nel 1946, dietro i banchi della Democrazia Cristiana, Andreotti ricoprì, nel corso della sua carriera, ruoli chiave nell’ambiente politico italiano: 7 volte presidente del Consiglio e ben 32 incarichi ministeriali (Esteri, Interno, Difesa, Industria, Finanze, Bilancio, Partecipazioni statali).

Le sue prime azioni politico si svolsero come Ministro dello Spettacolo nel 1949, quando, per dare una spinta al cinema, fece aumentare la tassa del doppiaggio dei film stranieri, ma ristrette ancora di più le norme di approvazione dei film, censurando diverse pellicole perché ritenute “pericolosamente immorali”.

Ma fu proprio la versatilità dei ruoli politici che assunse nel corso della sua carriera che gli consentì di costruire una rete di relazioni trasversali nella burocrazia statale, nel mondo economico e nelle Forze Armate, guadagnandosi la reputazione di politico affidabile per gli ambienti moderati, per il Vaticano e per gli alleati internazionali.

Questa reputazione rispettabile fu ciò che gli permise i 7 mandati da Presidente del Consiglio, collocandosi al vertice del potere a più riprese tra il 1972 e il 1992, con mandato più lungo dal 1989 al 1992 con il cosiddetto governo Andreotti VII.

Fu proprio durante il suo ultimo governo, nel 1991, che il Presidente della Repubblica Cossiga lo nominò senatore a vita. Atto non scontato visto il rapporto travagliato tra i due a seguito del caso Moro per le loro divergenze d’opinione sul modo d’agire.

Nel 1992, Andreotti fu persino considerato tra i favoriti per l’elezione al Quirinale, ma il suo nome venne bruciato durante le convulse votazioni seguite alla strage di Capaci – un segno che il suo tempo stava per finire insieme alla Prima Repubblica. Dopo la sconfitta elettorale della DC nel 1992 e il ciclone di Tangentopoli, Andreotti lasciò Palazzo Chigi consegnando il paese a una stagione politica completamente nuova.

“Meglio tirare a campare che tirare le cuoia.”

Un record difficile da battere anche nelle più moderne democrazie, quello di Andreotti e la sua tenuta di potere sull’Italia per quasi trent’anni.

Da molti definito machiavelliano per il suo stile politico sancito dal pragmatismo, Andreotti non cercò mai il carisma delle folle né le luci della ribalta: «un uomo tranquillo e dimesso – quasi curiale – che non amava mettersi in mostra», lo descrisse efficacemente la BBC.

Non diventò mai segretario nazionale della DC. Tuttavia, questo non lo fermò dal fondare una delle correnti più influenti all’interno del partito democristiano, la cosiddetta: corrente andreottiana.

Di nomi gliene sono stati affibbiati tanti nel corso della sua carriera: da “la Sfinge”, per i colleghi di partito, a “Zio Giulio”; dal “Divo” a “Belzebù”, soprannome datogli apparentemente da Bettino Craxi, allora a capo del PSI, alludendo con sarcasmo a una sua presunta diabolicità manovriera.

Ma come può una figura dall’apparenza così pacata, che preferiva il compromesso al rischio e un governo che agiva a piccoli passi piuttosto che una presa di audacia, essere ricordato da una nazione intera come una figura addirittura paragonabile a “Belzebù”?

Ombre e processi: le accuse di mafia negli anni ’90

Nonostante i successi nella sua carriera, Giulio Andreotti non fu mai del tutto immune a pesanti critiche e accuse. Questo lo portò presto a diventare uno dei personaggi più controversi della politica italiana della Prima Repubblica.

Fin dagli anni ’60 il suo nome affiorò in vicende che scossero l’Italia intera: dall’appalto per l’aeroporto di Fiumicino, inaugurato nel 1961, ai retroscena dei crack bancari dei finanzieri Michele Sindona e Roberto Calvi (quest’ultimo trovato impiccato sotto un ponte a Londra nel 1982).

Tali episodi alimentarono il sospetto che Andreotti fosse depositario di molti segreti inconfessabili del potere italiano. Tuttavia, fu solo all’inizio degli anni ’90 – con il tramonto della Prima Repubblica – che le ombre più gravi si addensarono formalmente su di lui, portandolo nelle aule giudiziarie in quello che venne definito dai media “il processo del secolo”.

Il primo grande colpo alla credibilità di Andreotti arrivò nel 1992 con l’accusa di “concorso esterno in associazione mafiosa” portata avanti dalla procura di Palermo. Diversi pentiti di Cosa Nostra lo indicarono come referente politico della Cupola – l’organo organizzativo che riunisce i capi di Cosa Nostra della provincia di Palermo – sostenendo che avesse intrattenuto per anni fitti rapporti con boss mafiosi.

Parallelamente, nel 1993, la procura di Perugia chiamò Andreotti a rispondere all’accusa di essere il mandante per l’omicidio Pecorelli; omicidio avvenuto il 20 marzo 1979 che fece perdere la vita al giornalista Mino Pecorelli, fondatore dell’agenzia di stampa «Osservatore Politico» e presunto detentore di fascicoli che avrebbero messo a repentaglio la carriera e la reputazione di Andreotti stesso.

Nel caso di Palermo, Andreotti fu prosciolto in primo grado nel 1999, ma la vicenda ebbe uno sviluppo controverso in appello: nel 2003 la Corte d’Appello di Palermo stabilì che l’imputato aveva effettivamente intrattenuto contatti illeciti con esponenti mafiosi fino al 1980, dichiarando però tali fatti “commessi ma estinti per prescrizione”.

La sentenza risulta dunque molto chiara: per la giustizia italiana risultava provato, ancorché non punibile, che Andreotti avesse intrattenuto rapporti organici con Cosa Nostra almeno fino alla fine degli anni ’70, adottando un linea antimafia più rigida solo dopo gli anni ‘80, probabilmente influenzato anche dall’assassinio per mano mafiosa di Piersanti Mattarella, fratello dell’odierno presidente della Repubblica ed ex presidente della Regione Sicilia.

Anche il processo per l’omicidio Pecorelli seguì un iter altalenante. In primo grado Andreotti venne assolto nel 1999, ma nel sorprendente verdetto d’appello del 2002 fu dichiarato colpevole: la Corte ritenne credibile la pista secondo cui il senatore a vita, tramite il boss mafioso Gaetano Badalamenti, avrebbe ordinato l’eliminazione del giornalista scomodo, e lo condannò a 24 anni di reclusione. L’anno seguente, tuttavia, intervenne la Cassazione che annullò la condanna senza rinvio, assolvendolo in via definitiva “per non aver commesso il fatto”.

La fine di un mito?

Con la morte di Andreotti avvenuta a Roma nel 2013 morirono anche tutti i suoi segreti riguardo la politica italiana e la sua persona.

Pur avendo affermato in svariate interviste la sua passione nel tenere un diario segreto, proprio per suo volere i fatti scritti in quelle pagine non vennero mai pubblicati, e con Andreotti morì anche la possibilità di leggere notizie che, magari, avrebbero messo in luce nuovi aspetti mai pensati della Prima Repubblica.

Statista longevo come nessun altro, e al tempo stesso il più controverso”, lo ha definito un necrologio, ricordando come fosse “criticato tanto quanto amato”.

In effetti l’eredità di Andreotti resta duplice: da un lato il governante abile e navigato che garantì all’Italia decenni di stabilità in un periodo cruciale, dall’altro il simbolo di un modo di gestire il potere innegabilmente opaco, intrecciato ai retroscena meno edificanti della vita pubblica.

Eppure, piaccia o no, la storia repubblicana non può prescindere dalla sua figura. Come scrisse La Stampa, Andreotti è stato “lo statista più longevo della storia del nostro Paese”, e con la sua scomparsa si è chiuso definitivamente un capitolo irripetibile della politica italiana.

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Pavese, classe 2005. Ha intrapreso un percorso di studi in Psicologia, che ha abbandonato per iscriversi a Lettere Moderne presso l’Università di Torino, legandosi al mondo del giornalismo e della divulgazione.
Nel giugno 2024 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie con la casa editrice Dantebus, in seguito alla vittoria di un concorso nazionale.
Appassionata di storia, politica e cultura, coltiva un interesse costante per l’evoluzione del pensiero e il ruolo della parola nel dibattito pubblico, promuovendo il bisogno per la società della scrittura e lettura come mezzo di conoscenza più profondo.

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