In Italia esistono dieci centri in cui si può essere rinchiusi senza aver commesso reati. Basta avere un permesso di soggiorno scaduto. Non c’è processo, non c’è condanna. A convalidare la detenzione è un giudice di pace, privo di formazione specifica in diritto dell’immigrazione e in tutela dei diritti fondamentali.
Questi luoghi si chiamano centri di permanenza per il rimpatrio (CPR), ma di fatto sono spazi di detenzione arbitraria, dove la dignità umana viene sgretolata dall’assenza del diritto.
Ostruzionismo istituzionale, quello che non dobbiamo vedere
La legge Turco-Napolitano, introdotta nel 1998, ha istituito i primi centri di detenzione amministrativa. Il principio su cui si fondano, la detenzione non per un reato, ma per motivi burocratici (come l’irregolarità del soggiorno), riemerge da un passato inquietante: quello della detenzione senza processo applicata dal fascismo agli oppositori politici.
Chiunque venga trovato senza permesso di soggiorno valido, può essere mandato in un CPR. Recinsioni, filo spianto e telecamere circondano i centri, spesso ricavati da caserme, carceri o complessi militari. Da fuori, è impossibile immaginare cosa accade al loro interno. In tutti, a eccezione di quello a Milano, è vietato l’utilizzo del telefono cellulare. Su internet, non si trovano contatti pubblici. Perché questo ostruzionismo?
L’associazione Naga e la rete Mai più Lager – No ai CPR hanno osservato il centro di Milano per un anno, da maggio 2022 al maggio 2023. Il loro rapporto ‘’al di là di quella porta’’ documenta violazioni, abusi, degrado. E se questa è la situazione in un CPR dove qualcosa è trapelato, negli altri centri italiani si presume una condizione analoga, se non peggiore.
Idonei all’annientamento
Chi arriva in un CPR viene immediatamente sottoposto a quella che viene definita “visita medica”. In realtà, il primo atto è già un’umiliazione: ci si deve spogliare completamente e fare flessioni da nudi, per espellere eventuali oggetti nascosti nell’ano. Il tutto alla presenza di agenti e personale sanitario. La visita medica effettiva si riduce alla domanda: «Come stai?».
Gli strumenti di diagnostica, a parte i tamponi Covid, sono assenti. In qualche caso viene misurata la pressione.
Persone affette da gravi patologie, come tumori al cervello, epilessia, disturbi psichiatrici o malattie cardiache, vengono comunque dichiarate idonee al trattenimento.
Non sono previste visite psicologiche, né valutazioni approfondite delle condizioni mentali.
Che poi, a qualcuno, dovrebbe pur sorgere la domanda: chi è davvero ‘’idoneo’’ a vivere in una gabbia? Perché questo sono i cosiddetti ‘’moduli abitativi’’: celle dove vivono tre o quattro persone, senza privacy, né dignità. Chi è idoneo a mangiare cibo avariato con i vermi, in mense con topi e piccioni che girano tra gli avanzi? Chi è idoneo a sopportare il gelo d’inverno o a cuocere come un animale d’estate, sotto coperture in plexiglass che creano l’effetto serra?
Sedati e senza diritti: anatomia di una detenzione disumana
Tutti, malati e sani, vengono trattati allo stesso modo: con dosi elevatissime di psicofarmaci. Secondo un’inchiesta di Altreconomia, tra gennaio e luglio 2022, nel centro di detenzione di Palazzo San Gervasio sono state somministrate oltre 2.800 compresse di psicofarmaci. I più usati: Rivotril, Diazepam, Alprazolam e Tavor. In media, quasi una scatola a persona. Dati analoghi emergono da altri centri, come Milano, Roma e Torino, dove la spesa per psicofarmaci raggiunge percentuali altissime rispetto al totale.
I farmaci non sono prescritti da psichiatri, ma da medici generici. Chi soffre di disturbi psichiatrici, peggiora. Il sano, si ammala. Si parla di ‘’zombizzazione’: i detenuti progressivamente diventano disorientati, non riescono più a comunicare, sono in uno stato vegetativo indotto. Lo psicofarmaco viene usato per controllare chimicamente la loro mente, sedarla, annientarla.
I detenuti nei CPR non possono disporre di carta e penna, l’una considerata ‘pericolosa’ perché infiammabile, l’altra perché potenziale arma. E quindi a loro non viene data la carta dei diritti, che invece nelle carceri è garantita. Nessun elenco di garanzie, nessuna traduzione, nessuna informazione chiara. Per chi è rinchiuso, trovare un avvocato è quasi impossibile.
Chi non è ancora del tutto annientato dai farmaci, a volte riesce a contattarne uno. Ma non è detto che quell’avvocato possa seguire tutte le udienze. Anzi, spesso non lo fa. Le udienze avvengono da remoto, con connessioni instabili, senza interpreti, alla presenza delle forze dell’ordine, e in un clima di isolamento e intimidazione.
Il risultato è una parodia del giusto processo: assenza di continuità nella difesa, nessuna reale possibilità di comprensione o opposizione, nessun diritto effettivamente esercitabile.
Ribellarsi col corpo: le proteste invisibili nei centri di permanenza
I detenuti dei CPR non hanno voce. E allora protestano con il corpo. Non mangiano. Affinché li facciano uscire, affinché non li rimpatrino nell’inferno da cui sono scappati.
Nel CPR di Milano un uomo si è cucito la bocca con del filo. Quel filo è stato poi strappato con la forza, senza assistenza medica, dalle forze dell’ordine. I tentativi di suicidio sono all’ordine del giorno. Le persone, disperate, si impiccano con le lenzuola di carta, ingoiano pile, lamette, tappi di plastica.
Spesso, le proteste arrivano sotto forma di incendi. I cortili diventano camere a gas, tra fumo nero, urla e sirene che arrivano tardi. Ma per la legge italiana, queste non sono proteste legittime. Adesso, con il nuovo DDL Sicurezza, che è in vigore dal 10 giugno 2025, chi resiste, anche passivamente, rischia fino a 20 anni di carcere.
Nel limbo della detenzione: deportati, trasferiti, dimenticati
Non c’è lieto fine per chi entra nel CPR. C’è chi viene rimpatriato, e nessuno prepara psicologicamente la persona, che può venire deportata in un Paese in cui non ha mai messo piede.
Gli agenti entrano nella cella, prelevano il detenuto, molto spesso sotto shock, e lo caricano su un furgone, legandolo mani e piedi. Se si ribella, lo sedano e lo fanno comunque salire sull’ aereo.
E poi c’è chi non può essere rimpatriato, perché mancano accordi con il Paese d’origine, o perché è malato. Ma invece di essere liberato, viene trasferito da un CPR all’altro: da Torino a Gradisca, da Milano a Palazzo San Gervasio.
Un “tour della detenzione” usato anche per punire chi protesta, chi parla troppo, chi racconta all’esterno cosa accade dentro. I centri del Sud (Potenza, Caltanissetta, Trapani) sono noti tra gli attivisti come i CPR punitivi: più isolati, meno accessibili, più violenti.
E infine, c’è chi esce e basta. Senza un motivo preciso. Magari perché sono scaduti i giorni, o ha qualche osso rotto, ed è considerato un peso. Il portone si apre, e la persona viene buttata fuori come spazzatura.
Business della reclusione: chi guadagna sulla pelle dei migranti
Lo Stato italiano spende tra 50 e 60 milioni di euro l’anno per gestire i dieci CPR sul territorio nazionale, con una media di circa 29.000 € per posto all’anno, che in alcuni piccoli centri sale fino a 70.000€.
Parallelamente, il governo Meloni ha stipulato un accordo per due centri in Albania, con una spesa prevista di 650-670 milioni € nei prossimi cinque anni. Questo piano mira a ospitare fino a 36.000 richiedenti asilo all’anno e comporta un costo unitario stimato tra 18.000 € e 70.000 € a persona.
Il sistema dei CPR non serve a rimpatriare né a garantire sicurezza. Serve a esistere, per muovere soldi, appalti, consenso politico e propaganda securitaria. La detenzione amministrativa è un affare per pochi. A gestire i centri non è lo Stato, ma cooperative, consorzi e multinazionali.
Tra i principali attori c’è ORS Italia, filiale del gruppo svizzero ORS Group, attiva in vari centri italiani. A Brindisi, l’appalto è andato al consorzio HERA AGH, con un costo giornaliero di quasi 44 euro per detenuto. A Trapani, la gestione è passata da Badia Grande a Vivere Con, sempre con costi pubblici simili (circa 29 euro al giorno).
Pasti, farmaci, sicurezza e pulizie sono tutti servizi esternalizzati: lo Stato non gestisce direttamente, ma finanzia con fondi pubblici un sistema opaco e redditizio.
Riflessione sull’oggi: quando l’inaccettabile diventa possibile?
Quanto è facile, oggi, perdere il permesso del soggiorno? Bastano pochi giorni senza contratto, una residenza non aggiornata, una dimenticanza burocratica. E, in un attimo, si può finire rinchiusi in un centro di detenzione, senza aver commesso reato. E allora: perché nessuno grida all’orrore? La sensibilità pubblica sul tema dell’immigrazione è anestetizzata. Il referendum sulla cittadinanza dell’8 e il 9 giugno non ha neanche raggiunto il quorum. Il senso di ingiustizia sociale viene trasformato in rancore verso chi sta peggio. Viviamo in una società che criminalizza e marginalizza costantemente l’immigrato. La deumanizzazione è sociale prima che giuridica.
Tg, dibattiti, e giornali alimentano lo stigma trasformando ‘’maranza ’ e ‘‘baby gang’’ in emergenze nazionali. E tutto tace di fronte alle condizioni e di povertà in cui sono costretti a vivere i migranti, di fronte all’abbandono delle periferie.
Ma chi è il vero criminale? Non è forse uno Stato che spende decine milioni di euro all’anno per rinchiudere esseri umani in un lager? I CPR vanno chiusi, perché non può essere definito civile uno Stato che considera la gabbia una risposta politica.
Fonti:
https://naga.it/wp-content/uploads/2023/10/AL-DI-LA-DI-QUELLA-PORTA_Digitale.pdf
https://altreconomia.it/pioggia-di-ansiolitici-al-cpr-di-palazzo-san-gervasio-per-rendere-innocui-i- reclusi/
Aiutaci a far nascere il Progetto Editoriale LaLettera22, contribuisci alla raccolta fondi