Nella calda notte del 17 luglio 1918, si consumò uno degli eventi più drammatici della storia russa: la fine della dinastia Romanov. Dopo mesi di prigionia sotto il controllo dei bolscevichi, l’ultimo zar di Russia, Nicola II, la zarina Alessandra e i loro cinque figli furono brutalmente giustiziati.
L’anno precedente, lo zar Nicola II fu costretto ad abdicare, rinunciando al trono che la sua famiglia aveva occupato per oltre tre secoli. Da imperatore di tutte le Russie, divenne semplicemente Nicola Romanov.
Quel massacro segnò la definitiva caduta dell’Impero russo e l’inizio di un nuovo, tumultuoso capitolo per la Russia. Ma cosa portò alla tragica esecuzione della famiglia imperiale?
Un sovrano inadeguato
Salito al trono nel 1894, Nicola II si rivelò un monarca poco adatto a governare un impero in crisi. Caratterizzato da una personalità indecisa, si limitava spesso a seguire l’ultimo consiglio ricevuto, alimentando il malcontento tra la popolazione e l’instabilità politica. Anzi, immaginate che, secondo una battuta che circolava a San Pietroburgo, le due persone più potenti di Russia erano lo zar e chiunque gli avesse parlato per ultimo.
Convinto del proprio diritto divino a regnare, si oppose con fermezza a ogni riforma democratica e lasciò ampio margine di azione alla polizia segreta, l’Ochrana, nota per la sua brutalità.
Il suo regno fu segnato da insuccessi, tra cui la disastrosa guerra contro il Giappone (1904-1905) e la Rivoluzione del 1905, che lo costrinse a istituire la Duma, un organo legislativo il cui potere fu però subito limitato. Nel 1914, inoltre, l’ingresso nella Prima guerra mondiale aggravò ulteriormente la situazione del Paese, portando a perdite devastanti e a una crisi economica profonda. Nonostante il crescente dissenso, lo zar rimase convinto dell’affetto del popolo, mentre la propaganda rivoluzionaria lo dipingeva come “Nicola il Sanguinario“.

Un legame familiare indissolubile
Nicola era molto legato alla moglie, Alessandra, e ai loro cinque figli: Ol’ga, Tat’jana, Marija, Anastasija e il piccolo Aleksej, erede al trono. Alessandra, di origini tedesche e nipote della regina Vittoria, era una donna forte e autoritaria, ma poco amata dai russi, che la percepivano come un’estranea. Ma a differenza del marito, la zarina si rendeva conto della propria impopolarità e ciò la rese ipersensibile e paranoica. La sua ansia e la sua ossessione per il controllo la resero sempre più vulnerabile all’influenza di Grigorij Rasputin.
Rasputin, un mistico siberiano dal passato oscuro, entrò nelle grazie della famiglia reale nel 1905, guadagnandosi la fiducia della zarina per la sua presunta capacità di alleviare le sofferenze del figlio Aleksej, affetto da emofilia. La sua presenza a corte, il suo comportamento libertino e le voci di un’influenza eccessiva sulla zarina alimentarono il disprezzo del popolo e della nobiltà russa. Tuttavia, nonostante le pressioni, Nicola si rifiutò di allontanarlo, aggravando la sua impopolarità. Quando Rasputin conobbe i Romanov, nel 1905, la zarina era disperata. Proprio quell’anno la rivoluzione aveva quasi rovesciato la monarchia.
Furono proprio crisi politica e l’agonia materna di Alessandra a permettere a Rasputin di insinuarsi in seno alla famiglia. Nel 1908 Aleksej soffrì di una forte emorragia, ed egli riuscì ad alleviarne il dolore. Si racconta che quest’ultimo avesse detto a Nicola e Alessandra che la salute del figlio sarebbe stata legata alla forza della dinastia. Ed ecco che, a causa dell’ingenuità dello zar e della disperazione della zarina, Rasputin si assicurò un posto a palazzo e il potere di influenzare lo zar.
Arriva il 1915 e, con il fronte in gravi difficoltà, lo zar decise di assumere il comando diretto dell’esercito, lasciando il governo nelle mani della moglie. Il risultato fu un disastro: Alessandra, guidata dai consigli di Rasputin, nominò ministri incompetenti, mentre il malcontento popolare cresceva a livelli esplosivi. Le perdite al fronte e la condotta di Rasputin in patria misero il popolo russo contro lo zar e la sua famiglia. La rivoluzione divenne inevitabile.

La prigionia e la fine
Dopo l’abdicazione, la famiglia Romanov fu inizialmente confinata a Carskoe Selo e poi trasferita a Tobol’sk, negli Urali. Lontani dalla corte, vissero con una certa serenità, mantenendo un seguito di servitori e alcuni oggetti personali. Continuavano a sperare in un esilio all’estero, possibilmente in Inghilterra, dove il re Giorgio V era loro cugino.
Ma le porte si chiusero progressivamente. Nell’aprile del 1918, furono trasferiti a Ekaterinburg, nella radicalizzata Casa Ipat’ev. Qui le condizioni peggiorarono: le guardie furono sostituite da soldati bolscevichi molto più severi e la famiglia venne isolata. Nel frattempo, la Russia doveva negoziare la propria uscita dalla Prima guerra mondiale ed evitare nel contempo un’invasione straniera. Rimanendo in vita, i Romanov avrebbero rappresentato un simbolo per il movimento monarchico. Nel luglio 1918, quindi, fu inviato a Mosca un telegramma che informava Lenin della decisione di trucidare i prigionieri per evitare che potessero diventare un simbolo per la controrivoluzione. All’una e trenta del mattino i Romanov vennero informati che il conflitto tra le armate rossa e bianca stava minacciando la città e che, per la loro stessa sicurezza, dovevano essere trasferiti nel seminterrato. Da lì, non sarebbero più usciti vivi.
Lì, infatti, il comandante Jakov Jurovskij lesse una sentenza di morte e, subito dopo, il plotone di esecuzione aprì il fuoco. Nicola e Alessandra furono uccisi rapidamente, mentre le figlie, protette dai gioielli cuciti nei loro vestiti, furono colpite con baionette e proiettili a distanza ravvicinata. Il massacro durò circa venti minuti. I loro corpi furono trasportati fuori città, cosparsi di acido e sepolti in fosse anonime.

Un mistero lungo decenni
Dopo l’esecuzione, il governo sovietico evitò di diffondere dettagli sulla fine della famiglia imperiale. Solo nel 1926 venne confermata ufficialmente la morte di Nicola, mentre per anni continuarono a circolare voci su superstiti. Il silenzio del regime alimentò leggende e diede origine a numerosi impostori, tra cui la celebre Anna Anderson, che sosteneva di essere Anastasija.
La verità emerse solo nel 1991, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, quando vennero esumati i resti di Nicola, Alessandra, tre delle figlie e quattro servitori nei pressi di Ekaterinburg. Le analisi del DNA confermarono la loro identità e, nel 1998, furono sepolti nella cattedrale di San Pietroburgo. Nel 2007 vennero ritrovati anche i resti di Aleksej e Marija, chiudendo definitivamente il capitolo storico sulla loro sorte. Ed ecco la fine della dinastia Romanov.
Nel 2000 la Chiesa ortodossa russa canonizzò la famiglia come martiri, e oggi il sito della loro esecuzione ospita la Chiesa sul Sangue, divenuta meta di pellegrinaggio. La fine dei Romanov rappresenta uno degli eventi più tragici della storia russa, un simbolo della caduta di un’epoca e della violenza della rivoluzione.
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