L’abbaglio, il nuovo film di Roberto Andò, tra storia e ironia, racconta la nascita dell’Italia come un grande inganno collettivo. Un’illusione in cui ancora oggi scegliamo di credere.
La prima volta che andai a votare avevo ancora qualche speranza, per non dire aspettativa, su quello che sarebbe stato il mio futuro. I miei genitori, invece, non si sono mai fatti illusioni: le promesse non mantenute dei governanti erano materia quotidiana già ai loro tempi, come lo sono oggi. Eppure una domanda mi torna spesso in mente, specie quando ascolto certi discorsi in campagna elettorale: quando è cominciata questa strategia di raccogliere consenso nel nome della libertà? Quando abbiamo iniziato a confondere l’ideale con lo slogan, la visione con la promessa? Forse, come suggerisce il film L’abbaglio, è proprio con la nascita dell’Italia unita che ha preso forma quel racconto seducente e ambiguo, capace di illudere il popolo e legittimare il potere. Il racconto degli imbonitori.
Il tempismo è fondamentale per l’uscita di un film al cinema, soprattutto in tempi di referendum. Lo sguardo di un regista, specie quello di Roberto Andò, non manca di farci riflettere su alcuni temi delicati, con immagini che le parole della propaganda e della macchina consenso forse ancora non sono riuscite a trovare.
Con L’abbaglio, Andò prosegue la sua riflessione sulla Sicilia, terra d’origine e sfondo di molte sue opere, riportando sullo schermo il cast che aveva già interpretato Pirandello in La stranezza. Ficarra, Picone e Toni Servillo sono ora protagonisti di un episodio poco noto ma cruciale dell’avanzata garibaldina verso l’unità d’Italia.
Il film racconta infatti la manovra diversiva orchestrata da Garibaldi per ingannare le truppe borboniche, mentre si prepara a entrare a Palermo, la prima grande città del Sud conquistata dai garibaldini e destinata a far parte del nuovo Regno d’Italia.
La finta avanzata delle truppe garibaldine è guidata dal colonnello Vincenzo Giordano Orsini, ex generale dell’esercito borbonico che, dopo il periodo in Turchia al servizio del mustafà Pascià, si unisce a Garibaldi nella speranza di entrare nella sua città natale al fianco del condottiero dei due mondi. Il personaggio, interpretato da Toni Servillo, accetta con riluttanza l’incarico della manovra diversiva, ben consapevole del rischio quasi suicida dell’azione, vista la netta disparità tra le forze in campo. La regia ci accompagna nel cuore dell’inganno messo in atto contro le truppe borboniche comandate dallo svizzero Von Mechel — interpretato da Pascal Greggory — che, grazie a pochi espedienti tattici, vengono indotti a credere che l’esercito garibaldino sia molto più numeroso di quanto sia in realtà.
Anche in questo film Ficarra e Picone vestono i panni di personaggi di fantasia. In La stranezza, che raccontava la genesi di Sei personaggi in cerca d’autore, interpretavano due impresari funebri con la passione per il teatro, che per caso si imbattono in Pirandello quando questi si reca nella loro agenzia. L’espediente narrativo serviva allora da omaggio al teatro amatoriale e arricchiva il film con una vena comica e ironica, rendendolo leggero e coinvolgente. Ne L’abbaglio, invece, i due comici siciliani interpretano due disertori, arruolati a Venezia con il solo scopo di ottenere un passaggio gratuito per tornare in patria. Non appena sbarcano, infatti, approfittano della prima occasione per darsela a gambe.
Anche in L’abbaglio, la vena comica e ironica di Ficarra e Picone è un elemento essenziale del racconto. I loro personaggi rappresentano la parte popolare del Paese, quella che non si lascia sedurre dalle promesse degli imbonitori destinati a governare — come li definisce il colonnello Orsini, disilluso, rispondendo all’entusiasmo ingenuo di un giovane sottoposto. Quel giovane, come molti altri, insegue il sogno di libertà e riscatto, sogno che verrà presto tradito quando le terre promesse saranno vendute dallo Stato per pagare i debiti di guerra, e le condizioni economiche, invece di migliorare, peggioreranno drasticamente, come avvenne in gran parte del Meridione dopo l’Unità d’Italia. I due comici diventano così protagonisti del raggiro ai danni dei Borboni, entrando nel paese di Sambuca, dove i garibaldini si erano rifugiati. Con la loro consueta leggerezza, ci mostrano una Sicilia fatta di popolani che vivono in condizioni di vita non dissimili da quelle della capra o dell’asino — per usare le parole amare del colonnello, o meglio ancora, quelle di Leonardo Sciascia, autore del racconto da cui il film è tratto — ma che conservano intatti ed alti i sentimenti umani: la pietà, la gentilezza, il coraggio.
Dall’altra parte, il colonnello Orsini incarna lo sguardo più disilluso e realistico del film. I silenzi e gli sguardi di pietra di Toni Servillo, persino dopo la vittoria di Calatafimi, raccontano l’assurdità della guerra molto più di tanti dialoghi: dalla scena dell’arruolamento, fatta di improvvisati libertari e gente comune, alla brutale rappresaglia borbonica a Corleone, punita per aver dato rifugio ai garibaldini. Ma il suo disincanto non è resa: l’Orsini di Andò, non da meno di quello di Sciascia, ha una sua giustizia personale e non attacca Giuliana quando gli viene negata l’ospitalità. Ma a differenza del racconto originale, rifiuta l’aiuto offerto dai briganti che Sciascia descrive vestiti di nero dal volto impenetrabile, persone di fiducia di un barone rispettati per la loro violenza e portatori di silenzio, silenzio che da titolo al suo racconto. Nell’Italia per cui combatte l’Orsini di Andò, non c’è spazio per la “vecchia e corrotta aristocrazia, ombre, fantasmi agonizzanti, larve di un mondo che sparirà”.
Eppure, L’abbaglio non è un film di denuncia. Andò non impone risposte, ma pone domande, lasciando allo spettatore il compito di riconoscere — tra i molti messi in scena — il vero abbaglio. C’è quello delle truppe borboniche che inseguono venti uomini credendoli l’esercito di Garibaldi, quello dei personaggi di Ficarra e Picone che si fingono garibaldini, poi mendicante e sordomuto, per sopravvivere. E c’è l’abbaglio più grande ma celato: quello dei giovani siciliani che, sperando nella libertà, finiranno traditi da uno Stato che svende il Sud per pagare i debiti di guerra. Lascia a noi capire se siamo un popolo che è stato tradito oppure che si è fatto abbagliare. L’abbaglio in questo senso è capace di parlare al presente attraverso le ombre del passato e dobbiamo capire come riscrivere una storia che non ci racconta più, non come leggenda di fondazione ma come presa di coscienza collettiva.