Le donne al lavoro durante le guerre mondiali. Quando la storia mise alla prova gli stereotipi.
Un cambiamento imposto dalla necessità
Durante la Prima (1914–1918) e la Seconda Guerra Mondiale (1939–1945), milioni di uomini furono chiamati al fronte, lasciando scoperti posti fondamentali nell’industria, nell’agricoltura, nei trasporti e nei servizi pubblici. Di fronte al rischio di un collasso economico e produttivo, i governi non ebbero scelta. Le donne dovevano entrare nel mondo del lavoro su larga scala.
Nel Regno Unito, ad esempio, già nel 1915 nacquero i primi contingenti femminili nelle fabbriche di munizioni, le cosiddette munitionettes, che produssero milioni di proiettili, spesso a rischio della propria salute. In Germania, molte donne furono impiegate nella produzione bellica, mentre in Francia e Italia si assistette a un rapido aumento della forza lavoro femminile. Negli Stati Uniti, durante la Seconda Guerra Mondiale, l’icona di “Rosie the Riveter” celebrava la lavoratrice americana che costruiva aerei, carri armati e navi militari.
In URSS, l’impiego delle donne fu ancora più esteso e radicale: combatterono persino in prima linea, come piloti, cecchine e partigiane. Ma anche altrove, milioni di donne guidarono autobus, ripararono linee elettriche, lavorarono nei cantieri navali e occuparono ruoli fino ad allora impensabili per una società dominata da un rigido modello patriarcale.
L’anniversario del D-Day mette in luce le donne “Rosie the Riveter” che costruirono le armi della seconda guerra mondiale
L’impegno delle donne italiane nella Resistenza
Anche in Italia, tra bombardamenti e occupazioni, le donne presero in mano le redini della sopravvivenza, continuando a far funzionare città e campagne. Spesso con figli piccoli a carico. Spesso rischiando la vita.
Ma il loro impegno and ben oltre la sostituzione nei ruoli civili.
Dal 1943, con l’armistizio e la nascita della Repubblica di Sal , inizi la guerra civile italiana. In questo contesto, migliaia di donne si unirono alla Resistenza, svolgendo attività clandestine come staffette, combattenti, organizzatrici di aiuti e rifugi, informatrici, infermiere. Una rete invisibile ma decisiva.
In molte regioni italiane si crearono brevi esperienze di autogoverno partigiano, come nel caso della Repubblica dell’Ossola, un lembo di territorio piemontese liberato nel 1944 e guidato da un’amministrazione democratica e antifascista.
Fu proprio lì che una donna cambi la storia.
Gisella Floreanini: la prima donna ministro in un’Italia che non voleva donne al comando
Nata a Milano nel 1906, Gisella Floreanini crebbe in un ambiente borghese ma intellettualmente sensibile alle questioni sociali. Si form come insegnante, e fin da giovane matur un potente senso di giustizia e un impegno politico che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita. Il fascismo, con la sua repressione e il suo controllo pervasivo della vita civile, rappresentava per lei un nemico da combattere, non solo come ideologia ma come sistema che opprimeva la libertà, la dignità e, in particolare, le donne.
Negli anni ’30 si avvicin al Partito Comunista Italiano, allora clandestino, e inizi ad agire nell’ombra, aiutando antifascisti perseguitati e partecipando alla resistenza intellettuale e politica. Durante la guerra civile italiana (1943–1945), quando il Paese era diviso tra la Repubblica Sociale Italiana al Nord e il Regno del Sud, Gisella divenne una figura chiave nella Resistenza partigiana in Val d’Ossola, una zona montana al confine con la Svizzera.
La Repubblica dell’Ossola: un laboratorio di democrazia anticipata
Nel settembre del 1944, per circa quaranta giorni, la zona della Val d’Ossola fu liberata dai partigiani e divenne una repubblica autonoma e democratica. Un esperimento politico avanzato e precursore di molte idee che sarebbero poi confluite nella Costituzione italiana. Qui, Gisella Floreanini fu nominata Commissaria per l’assistenza e i rapporti con le organizzazioni di massa, un incarico che oggi definiremmo ministeriale.
Era la prima volta nella storia d’Italia che una donna assumeva un incarico politico di quel livello, ben prima che le italiane ottenessero il diritto di voto. Floreanini si occup della gestione dei rifugiati, del sostegno alle famiglie colpite dalla guerra e della riorganizzazione della vita civile sotto un’amministrazione democratica. Con grande capacità e determinazione, organizz mense popolari, coordin gli aiuti internazionali (soprattutto dalla Svizzera) e garantì sostegno concreto a donne e bambini sfollati.
Il suo ruolo non fu solo operativo, ma anche profondamente simbolico: in un’Italia ancora profondamente patriarcale, una donna che prendeva decisioni, amministrava fondi e trattava con autorità straniere era qualcosa di rivoluzionario.
Dopo la guerra: l’invisibilità del merito femminile
Con la fine della guerra e la liberazione dell’Italia, Gisella torn alla politica “ufficiale”. Fu eletta all’Assemblea Costituente nel 1946 con il PCI, partecipando così alla scrittura della Costituzione della Repubblica. In seguito fu anche deputata nella I e nella II legislatura. Tuttavia, come molte altre donne che avevano avuto ruoli fondamentali durante il conflitto, anche lei dovette affrontare l’emarginazione silenziosa della nuova Italia democratica: pur stimata nel suo partito, non fu mai inserita nei vertici politici né proposta per incarichi di governo nel dopoguerra.
La grande mobilitazione femminile fu rapidamente ridimensionata. Politiche statali e pressioni sociali spinsero le donne a lasciare i loro posti per “restituirli” agli uomini. In molti paesi, furono approvate leggi che scoraggiavano l’occupazione femminile e incentivavano il ritorno al ruolo di moglie e madre.
Le competenze acquisite, le fatiche affrontate, le prove superate… tutto sembrava improvvisamente irrilevante. Il contributo delle donne fu sì riconosciuto, ma considerato temporaneo, utile solo finché c’era un’emergenza.
Una volta finita la crisi, l’ordine tradizionale doveva essere ristabilito.
Il messaggio era chiaro: avete servito la nazione, ora tornate a casa.
Un’ingiustizia che ha lasciato il segno
Questa rimozione forzata fu non solo ingiusta, ma profondamente umiliante. Le donne avevano dimostrato sul campo – nei cantieri, nei laboratori, nei campi, nelle officine – di poter fare ci che per secoli era stato riservato agli uomini. Eppure, quel valore fu sminuito, non per mancanza di risultati, ma per paura di perdere un privilegio.
Molti uomini, tornati dalla guerra, non vollero “condividere” il lavoro, né riconoscere alle loro mogli, sorelle e madri le stesse dignità professionale e libertà. L’uguaglianza vissuta nei fatti fu negata nei diritti. Le donne furono trattate come un “supporto” emergenziale, mai come un soggetto autonomo e competente.
Eppure, qualcosa si ruppe per sempre. Le guerre mondiali furono una ferita, ma anche uno squarcio nella narrazione dominante. Dimostrarono che il genere non determina il valore né la capacità, e che, se messe alla prova, le donne sanno affrontare il lavoro, la fatica, la responsabilità, esattamente come gli uomini.
Quel rifiuto del dopoguerra di riconoscerle come pari non fu la fine della storia. Al contrario, fu l’inizio di una lunga lotta. Le donne si sono rese conto per la prima volta di cosa potevano fare. E da quel momento in poi, non avrebbero più accettato che il mondo le trattasse come “incapaci per definizione”.
Quella memoria va oggi onorata, ricordata e trasmessa. Perché se oggi le donne lavorano, studiano, dirigono, combattono e creano, è anche grazie a quelle operaie, saldatrici, contadine e macchiniste che, in tempo di guerra, hanno fatto crollare, anche solo per un periodo, le barriere di genere costruite nei secoli.
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