Oggi il Parlamento Europeo si esprimerà su una mozione di sfiducia nei confronti della Commissione guidata da Ursula von der Leyen. Una mozione che con ogni probabilità non passerà — servono 480 voti su 719 e non ci si avvicinerà nemmeno — ma che resta carica di significato politico. Non perché possa far cadere davvero la Commissione, ma perché rivela le crepe sempre più evidenti nei fragili equilibri dell’Unione.
Proposta dal gruppo dei Conservatori e Riformisti europei (ECR), la mozione ha raccolto le firme necessarie per arrivare in aula. Ma anche all’interno dello stesso ECR ci sono divisioni. La sua approvazione non è mai stata un obiettivo realistico, ma la sua esistenza è un segnale preciso: Ursula von der Leyen è più isolata di quanto sembri, e la sua credibilità politica si sta erodendo.
Il “Pfizergate”: pretesto o bomba vera?
A innescare la mozione è stato il cosiddetto “Pfizergate”: l’acquisto di circa 1,8 miliardi di dosi di vaccino contro il Covid-19 negoziato direttamente da von der Leyen via SMS con l’amministratore delegato di Pfizer, Albert Bourla. Quei messaggi — richiesti da giornalisti, occultati dalla Commissione, e infine dichiarati d’interesse pubblico dal Tribunale dell’Unione Europea — sono spariti. Nessuna spiegazione convincente, solo silenzi e ambiguità.
L’estrema destra ha sfruttato l’occasione: per loro il “Pfizergate” è il simbolo dell’opacità e dell’arroganza tecnocratica della Commissione. Ma ridurre tutto a un attacco populista sarebbe comodo e semplicistico: la questione dei vaccini tocca la trasparenza dei processi decisionali in Europa, e questa Commissione, sotto la guida di von der Leyen, ha scelto più volte l’opacità come stile di governo.
Una presidente sempre più sola
Il dibattito parlamentare di lunedì è stato una resa dei conti, non solo con la destra, ma anche — e soprattutto — dentro la maggioranza europeista. Ursula von der Leyen ha risposto con un’insolita aggressività, accusando gli sfiducianti di fare il gioco di Putin e bollandoli come “estremisti”. Un tono che tradisce nervosismo più che sicurezza.
Socialisti (S&D) e liberali di Renew Europe, due dei gruppi che l’hanno sostenuta nel 2019 e nel 2024, sono sempre più insoddisfatti. Accusano il Partito Popolare Europeo (PPE), di cui von der Leyen è espressione, di essersi spostato a destra per compiacere le forze conservatrici, annacquando misure ambientali e stringendo alleanze tattiche con l’estrema destra sui dossier più sensibili.
Il doppio gioco del PPE
Negli ultimi mesi, il PPE ha più volte votato insieme ai Patrioti per l’Europa e ad altri gruppi dichiaratamente euroscettici e ultraconservatori. La stessa maggioranza che ha permesso la rielezione di von der Leyen ora le rimprovera di aver barattato le sue promesse con la sopravvivenza politica. Il caso più eclatante: martedì scorso, grazie ai voti del PPE, è stato assegnato ai Patrioti l’incarico chiave per la negoziazione degli obiettivi ambientali al 2040. Un controsenso, visto che i Patrioti vogliono smantellare proprio il Green Deal europeo.
Mercoledì, il PPE ha anche bloccato una proposta dei gruppi progressisti che avrebbe limitato l’influenza del relatore di quel provvedimento, confermando la scelta di campo. La coerenza politica non abita più a Bruxelles.
Il ruolo (ingombrante) di Giorgia Meloni
La mozione di sfiducia è stata anche un problema interno per Giorgia Meloni. Il suo partito, Fratelli d’Italia, fa parte dell’ECR, il gruppo che ha presentato la mozione. Ma von der Leyen e Meloni sono legate da un’intesa strategica che ha garantito all’Italia visibilità e centralità nei negoziati europei. Così, mentre altri membri dell’ECR come il partito romeno AUR o il polacco PiS spingevano per sfiduciare la Commissione, Meloni si è trovata tra due fuochi.
A smorzare i toni è intervenuto Nicola Procaccini (Fratelli d’Italia), co-presidente del gruppo, che ha definito la mozione “una mossa fallimentare” che rischia di rafforzare i gruppi europeisti. La linea della destra italiana è pragmatica: meglio tenersi una Commissione spostata a destra che rischiare il caos. Risultato? Fratelli d’Italia e Forza Italia voteranno contro la sfiducia, la Lega a favore. Tre partiti, tre direzioni. L’unità della destra italiana, ancora una volta, si sfalda sulle questioni europee.
La partita vera: il bilancio
Dietro le schermaglie di questi giorni c’è una posta molto più concreta: il bilancio europeo. I socialisti vogliono usare la mozione come leva negoziale per ottenere più fondi su scuola, welfare e politiche sociali, mentre la Commissione sembra più orientata a favorire industria bellica e innovazione tecnologica. In ballo ci sono miliardi di euro. Se von der Leyen vuole conservare l’appoggio della sinistra moderata, dovrà concedere qualcosa.
E forse lo farà. Perché la presidente della Commissione sa bene che, anche se oggi la mozione non passerà, ogni astensione o defezione nella sua maggioranza sarà un segnale di debolezza. E a Bruxelles, la debolezza politica si paga cara.
Una maggioranza che traballa
La verità è che la maggioranza di Ursula von der Leyen è la più fragile dal 1993. E l’Europa di oggi è una macchina complicata, sempre più esposta agli interessi dei governi nazionali, delle lobby industriali e degli equilibri geopolitici. Tra Green Deal annacquati, governi di estrema destra sempre più influenti e una guerra in corso alle porte dell’Unione, la presidente della Commissione sembra dover barattare ogni decisione con il suo stesso ruolo.
La mozione di sfiducia non cadrà per mancanza di voti, ma per eccesso di calcolo politico. E proprio questo rende il momento attuale più pericoloso: una Commissione tecnocratica, ostaggio di compromessi, con una presidente che cerca di sopravvivere galleggiando. Una sfiducia che non passa è ancora una sfiducia. E Ursula von der Leyen lo sa benissimo.
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