NATO: l’accordo sul 5% del PIL per la difesa militare
Il 25 giugno 2025 si è tenuto all’Aia, nei Paesi Bassi, un vertice chiave per il futuro della NATO. I leader dei 32 Stati membri hanno approvato un piano che prevede un aumento progressivo della spesa militare fino a raggiungere il 5% del prodotto interno lordo entro il 2035. Si tratta della più imponente manovra finanziaria mai discussa dall’Alleanza Atlantica in tempo di pace. Ma dietro questa scelta si nascondono molteplici spinte: dalla volontà di rafforzare le capacità difensive europee al desiderio — per alcuni, una necessità politica — di compiacere Donald Trump, tornato prepotentemente sulla scena atlantica.
L’intesa ha avuto il sostegno di tutti i paesi tranne la Spagna, che ha ottenuto una parziale deroga. Tuttavia, molti osservatori e analisti ritengono che questo consenso sia in gran parte formale: non tutti i governi sembrano pronti ad affrontare realmente un tale impegno di spesa, soprattutto in contesti economici ancora segnati da debito pubblico e instabilità politica.
Il ruolo di Trump nella NATO post-2025
Tra i principali protagonisti del vertice c’è stato, senza dubbio, Donald Trump. Dopo anni di tensioni tra Washington e gli alleati europei, il presidente americano ha accettato di confermare l’impegno statunitense nella NATO, ma solo a fronte di un aumento sostanziale degli sforzi economici da parte degli altri membri. “Restiamo nella NATO fino alla fine”, ha dichiarato a margine della riunione, ricevendo il plauso e il sollievo di molti leader, preoccupati da possibili minacce di ritiro unilaterale come già avvenuto durante il suo primo mandato.
Dietro il nuovo compromesso si cela però un calcolo strategico ben preciso. Mark Rutte, ex premier olandese e oggi segretario generale dell’Alleanza, ha orchestrato con attenzione il vertice, cercando un equilibrio tra fermezza e diplomazia. Il suo obiettivo era chiaro: evitare una rottura con gli Stati Uniti e garantire una dichiarazione finale che lasciasse Trump soddisfatto. In questo senso, il 5% non è solo una cifra, ma un segnale politico diretto alla Casa Bianca.
Come si compone il 5%: difesa e sicurezza “dual use”
L’impegno sottoscritto prevede una distinzione importante:
-
3,5% del PIL sarà destinato alla spesa per la difesa vera e propria, ovvero eserciti, armamenti, personale e manutenzione;
-
1,5% sarà invece dedicato alla “sicurezza strategica”, comprendendo infrastrutture critiche come porti, ferrovie, hub logistici e tecnologie dual use, ovvero utilizzabili anche per scopi civili.
Questa suddivisione permette a molti Stati di includere nel conteggio spese già previste in altri ambiti. Ad esempio, potenziamenti ferroviari o investimenti digitali per la sicurezza informatica. Una mossa che rende l’obiettivo del 5% più “flessibile” e adattabile ai singoli contesti.
Secondo Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali, il piano rappresenta “una miscela di sostanza e messinscena, costruita anche per soddisfare l’ego politico di Trump. Alcuni paesi sono già in linea, altri non lo saranno nemmeno nel 2035”.
Paesi più vicini al traguardo: Polonia, Baltici, Germania
Non tutti partono dallo stesso punto. Alcuni paesi, soprattutto sul fronte orientale dell’Alleanza, sono già prossimi a raggiungere il traguardo.
La Polonia, ad esempio, ha annunciato per il 2025 una spesa per la difesa pari al 4,7% del PIL, senza contare gli investimenti infrastrutturali che potrebbero farle superare ampiamente la soglia. Anche i Paesi Baltici, da anni in prima linea contro la minaccia russa, sono vicini all’obiettivo.
La Germania, locomotiva economica d’Europa, ha cambiato drasticamente rotta negli ultimi due anni. Dopo decenni di spesa contenuta, ha ora stanziato investimenti miliardari in nuove tecnologie, munizioni e sistemi di difesa. Secondo gli analisti, Berlino potrebbe rispettare pienamente l’obiettivo entro i tempi previsti, diventando il pilastro difensivo dell’Unione Europea.
Italia e Francia in difficoltà tra conti pubblici e consenso interno
Diversa è la situazione per altri membri storici dell’Alleanza. L’Italia, ad esempio, ha raggiunto per la prima volta il 2% del PIL nel 2025, ma solo ricorrendo a un’espediente contabile. Salire al 5% richiederebbe un impegno finanziario senza precedenti, difficilmente sostenibile con l’attuale livello di debito pubblico. Inoltre, l’opinione pubblica italiana resta in larga parte ostile all’aumento delle spese per gli armamenti, preferendo investimenti in sanità, welfare e ambiente.
Anche la Francia affronta ostacoli simili. Sebbene dotata di un esercito di primo livello e capacità nucleari autonome, il governo Macron ha più volte ribadito la necessità di una “difesa europea” integrata, piuttosto che un semplice aumento del budget militare nazionale.
Molti governi, quindi, hanno accettato l’obiettivo del 5% più come gesto simbolico e negoziale che come piano realistico. Non essendoci sanzioni previste in caso di inadempienza, né verifiche fino al 2029, rimandare il problema è una strategia piuttosto diffusa.
Il caso Spagna: la deroga e la rabbia di Trump
Unico a sottrarsi formalmente all’accordo è stato il premier spagnolo Pedro Sánchez. Il leader socialista ha ottenuto una deroga, dichiarando che la Spagna non arriverà al 5%, ma compenserà con efficienza e riforme strategiche, raggiungendo capacità equivalenti con il 2,1% del PIL.
Trump, prevedibilmente, ha reagito con durezza: “La Spagna è terribile, l’unico paese che non paga. Li faremo pagare il doppio nei negoziati commerciali. E sono serio”, ha tuonato. Per Sánchez, tuttavia, accettare il 5% avrebbe significato esporre il suo governo a una crisi interna irreversibile, aggravando una situazione politica già instabile.
Secondo Tocci, la posizione spagnola è “forse più onesta di quella di altri governi che hanno firmato, pur sapendo che non rispetteranno mai l’impegno”.
Un test cruciale per la tenuta della NATO
L’accordo sul 5% del PIL in spesa militare segna una svolta storica nella traiettoria della NATO. È, da un lato, la risposta concreta alle nuove sfide geopolitiche — dalla minaccia russa alla competizione con la Cina — ma dall’altro è anche una concessione politica alle pressioni statunitensi, in particolare a Trump, che ha fatto del burden sharing uno dei suoi cavalli di battaglia.
Nei prossimi anni, la credibilità dell’Alleanza si misurerà non solo sugli investimenti effettivi, ma sulla capacità di trasformare questa decisione in un rafforzamento operativo reale. In gioco non c’è solo il bilancio militare, ma la coesione politica tra Europa e Stati Uniti.
Aiutaci a far nascere il Progetto Editoriale LaLettera22, contribuisci alla raccolta fondi