“È il mio corpo, sono le mie regole.”È questo il mantra moderno di migliaia di donne, soprattutto giovani, che si affacciano sul mondo digitale con un account OnlyFans. E in teoria hanno ragione. In teoria. Perché nella pratica, sotto la patina di empowerment, si nasconde qualcosa di molto più subdolo: l’ennesima versione aggiornata del patriarcato. Solo che stavolta è on demand.
La vetrina digitale del desiderio maschile
OnlyFans è diventata una sorta di tempio postmoderno della sessualità. È la piattaforma dove chiunque — ma soprattutto donne — può vendere contenuti erotici o pornografici direttamente ai propri follower, senza filtri, senza agenzie, senza intermediari.
Una rivoluzione? Forse. Ma per chi?
L’algoritmo non mente: i profili più seguiti, più cliccati, più redditizi sono quelli che mostrano il corpo femminile secondo i canoni estetici della pornografia mainstream, quella disegnata su misura per l’uomo etero medio. E quindi curve abbondanti ma “fit”, bocche socchiuse, sguardi da lolita o da milf. Due archetipi, peraltro, che non sono nati per la liberazione femminile, ma per il consumo maschile.
Il pubblico di OnlyFans, per la stragrande maggioranza, è composto da uomini. Quelli che pagano. E questo dovrebbe già farci accendere una spia.
Quando una donna apre un profilo OnlyFans e comincia a guadagnare — a volte anche cifre impensabili — la narrazione vuole che abbia preso in mano la sua vita, che abbia finalmente trovato l’indipendenza economica attraverso la propria sessualità.
Ma proviamo a guardare le cose da un’altra angolazione.
Cosa succede se per guadagnare deve mostrare sempre di più? Se deve rispondere ai messaggi privati a qualsiasi ora? Se i guadagni calano nonostante la qualità dei contenuti cresca? Se il pubblico chiede, pretende, spinge sempre più in là il confine tra erotico e esplicito?
Chi detta davvero le regole? Chi ha il potere di premiare o punire con un semplice click?
La piattaforma, infatti, è costruita su un modello tipicamente capitalista e patriarcale: tu offri il tuo corpo, io ti pago. Tu mi dai accesso alla tua intimità, io ti do il mio denaro. Sembra libertà. Ma è una transazione. Ed è una transazione dove il controllo resta in mano al cliente.
La scelta “libera” che nasce da un sistema malato
La parte più inquietante della narrazione che ruota attorno a OnlyFans è quella che considera tutto “una scelta”.
“Lo fanno perché vogliono.”
“È il loro corpo, possono farci quello che vogliono.”
“Se guadagnano, che problema c’è?”
Ma nessuna scelta è davvero libera se viene fatta in un contesto in cui le alternative sono precarie, instabili o umilianti.
Molte delle ragazze su OnlyFans hanno tra i 18 e i 25 anni. Spesso sono studentesse, disoccupate, lavoratrici sottopagate. Vivono in un sistema in cui trovare un lavoro dignitoso, ben retribuito e stabile è una corsa ad ostacoli.
E allora OnlyFans diventa una “scorciatoia”: monetizzare subito, monetizzare facilmente, monetizzare ciò che il patriarcato ha sempre considerato l’unico vero valore della donna: il suo corpo.
Ma se a una giovane donna viene insegnato, fin dall’adolescenza, che la propria visibilità e il proprio valore passano dal modo in cui appare — e se viene sommersa ogni giorno da modelli ipersessualizzati ovunque, da Instagram a TikTok, dalla pubblicità al cinema — possiamo davvero dire che la sua “scelta” sia priva di condizionamenti?
La moneta nascosta: ansia, solitudine, dipendenza
Dietro le foto patinate e i guadagni dichiarati, ci sono le conseguenze invisibili. Quelle che non si postano nelle storie. Quelle che non si raccontano nemmeno alle amiche.
Ansia da prestazione. Paura di non essere più “abbastanza desiderabile”. Dipendenza da like, da attenzioni, da commenti che ti ricordano che vali solo se piaci.
E poi la solitudine: perché anche se hai migliaia di follower, nessuno di loro ti conosce davvero. Nessuno ti abbraccia, ti ascolta, ti considera per quello che sei oltre il corpo. Sei una fantasia a pagamento. Un servizio con scadenza. Un’esperienza usa-e-getta.
Molte creator lo dicono chiaramente: per mantenere alti i guadagni devi essere costante, presente, disponibile. Devi rispondere, interagire, accettare richieste personalizzate. Alcune finiscono per sentirsi come centraliniste erotiche digitali, con l’aggravante che sono loro a dover produrre, promuovere e gestire ogni aspetto del lavoro. È imprenditoria? Forse. Ma è anche sfruttamento autoimposto, travestito da autonomia.
Il potere apparente vs. il potere reale
C’è una differenza sostanziale tra esercitare il potere e sembrare potente. E OnlyFans spesso offre solo la seconda opzione.
Perché finché il tuo “potere” dipende dalla tua capacità di attirare l’attenzione maschile, non sei tu che comandi. Sei tu che stai funzionando bene all’interno di una macchina costruita per qualcun altro.
L’uomo guarda, paga e decide. Tu vendi, ti esponi, ti adatti.
E sì, c’è chi guadagna cifre astronomiche. Ma quanti sono? L’1% delle creator. Gli altri? Fanno fatica, cercano visibilità, sperano nel colpo di fortuna. È la solita vecchia piramide capitalista. Solo che qui, invece di vendere un prodotto, vendi te stessa.
E se domani il tuo corpo cambia? Se decidi di smettere? Se ti innamori e vuoi proteggere la tua intimità? Se il pubblico ti dimentica o ti giudica?
Quel “potere” evapora. Perché era basato su qualcosa di effimero, fragile, condizionato.
Il pubblico muto: gli uomini e il grande silenzio
In tutto questo discorso, ce n’è uno che spesso manca: quello degli uomini.
Perché mentre si parla (giustamente) delle donne che usano OnlyFans, del loro diritto a farlo, della loro libertà di scelta, c’è un’intera platea silenziosa che si gode lo spettacolo senza mai mettersi in discussione.
Chi sono questi uomini che pagano per vedere, per scrivere, per interagire con ragazze che non conosceranno mai?
Perché preferiscono pagare per una relazione simulata invece che affrontare la fatica di una relazione reale?
Perché continuano ad alimentare un mercato che trasforma l’intimità in intrattenimento?
La risposta è semplice, e scomoda: perché è comodo. Perché il patriarcato ha insegnato loro che possono. Che il desiderio maschile è un diritto. Che la sessualità femminile è qualcosa da acquistare, conquistare, possedere.
OnlyFans non ha inventato niente. Ha solo aggiornato la pornografia, rendendola interattiva, più personale, più coinvolgente. Ma il meccanismo è sempre lo stesso: l’uomo guarda. La donna si mostra. E se non lo fa abbastanza bene, può essere sostituita con un click.
C’è una domanda che nessuno fa mai abbastanza: cosa succede dopo?
Dopo i guadagni. Dopo i like. Dopo l’euforia. Dopo i 25, i 30, i 35 anni.
Chi ha costruito la propria identità — e spesso anche la propria sicurezza economica — sulla propria esposizione sessuale, cosa farà quando vorrà cambiare?
Chi avrà il coraggio di assumerla, se il suo nome è legato a contenuti espliciti?
Chi la vedrà come una professionista, come una madre, come una compagna, se l’unica immagine pubblica disponibile è quella di lei nuda in una stanza?
È brutto dirlo, ma è la realtà: viviamo in un mondo che giudica. Che salva i contenuti, li condivide, li usa contro di te.
E anche se oggi dici che non te ne importa, domani potresti pensarla diversamente. E scoprire che il prezzo della libertà — se imposta da un sistema che non cambia — è una gabbia travestita da palcoscenico.
L’illusione dell’emancipazione in un sistema che resta lo stesso
OnlyFans non è il problema. È il sintomo.
Il problema è un sistema che continua a offrire alle donne sempre le stesse strade per ottenere potere e indipendenza: bellezza, seduzione, sessualità.
Cambiano i mezzi, ma non cambia la matrice.
E finché la società non inizierà a valorizzare le donne per il loro pensiero, per la loro voce, per il loro lavoro al di là del corpo, ogni “libertà” sarà solo un’illusione ben confezionata.
Il vero patriarcato non è quello che ti dice “non puoi farlo”. È quello che ti convince che vuoi farlo, perché è la cosa giusta, conveniente, “di moda”.
È quello che ti applaude mentre ti svesti, ma ti dimentica quando chiedi un posto al tavolo delle decisioni.
È quello che ti dice che sei libera… purché resti al tuo posto.
E allora la domanda vera diventa: quanto le donne sono davvero libere, se per sentirsi potenti devono ancora una volta spogliarsi? Forse è tempo di costruire una cultura che renda il corpo una scelta, non una necessità.
Aiutaci a far nascere il Progetto Editoriale LaLettera22, contribuisci alla raccolta fondi