È il 17 febbraio 1992, a Milano.
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L’ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, è appena stato arrestato. Colto in flagrante mentre intascava una tangente da 7 milioni di lire dall’imprenditore Luca Magni.
Sarà lo stesso Magni a chiamare l’arma dei carabinieri e denunciare l’ingegnere milanese, aiutando le forze dell’ordine e il PM Antonio Di Pietro a incastrarlo, con la motivazione dell’eccessivo pagamento di tangenti che doveva a Mario Chiesa.
Questa notizia sconvolge l’Italia degli anni ‘90. I telegiornali si riempiono di notizie lampo, ed il mondo televisivo e giornalistico italiano si trova davanti ad uno degli scandali più scomodi ed estesi della Prima Repubblica, che metterò in dubbio, agli occhi dell’opinione pubblica, dell’intera classe politica italiana.
Una storia molto complessa
Tra gli anni ‘70 e ‘80, la politica italiana si trova allo sbaraglio: instabilità politica, clientelismo e una corruzione che si diffonde in tutti i ranghi del governo. Le “bustarelle” – o tangenti – erano ciò che mandava avanti l’intero sistema.
Si andava così a creare un binomio assai difficile da ignorare: da una parte rimaneva la democrazia, la legge, e i buoni principi; dall’altra, diversi milioni di lire illecite venivano intascate da politici e imprenditori sotto forma di tangenti.
I protagonisti di questi primi scandali sono due partiti di enorme spicco nella politica italiana di quegli anni: la DC, ovvero la Democrazia Cristiana, che da più di trent’anni dominava alle elezioni. All’epoca degli eventi, il cosiddetto Governo Andreotti VII era appena salito al potere (1991-1992) e Giulio Andreotti era ancora in carica di Presidente del Consiglio. Altro partito chiave dell’inchiesta è il PSI, ovvero il Partito Socialista Italiano, entrato nelle vette dell’elettorato italiano negli anni ‘80, con a capo Bettino Craxi.
Questi partiti detenevano il maggiore potere sui lavori pubblici, ed uno dei primi scandali fu lo scandalo delle “carceri d’oro”, a carico del Partito Socialista Democratico Italiana ed il suo maggiore esponente Franco Nicolazzi.
Cos’è lo scandalo delle carceri d’oro? Negli anni ‘80-’90 lo Stato italiano decide di costruire nuove carceri, ma qualcosa va storto: per quanto i fondi siano a disposizione, i progetti siano stati fatti, le carceri non vennero mai finite, e molte mai aperte, per quanto i milioni di lire vennero spese comunque.
Ciò non diede una bell’immagine dell’efficienza dello Stato agli occhi dei cittadini italiani.
Il caso di Chiesa: la punta dell’iceberg
Dopo l’arresto di Chiesa, la politica decide di fingere di non sapere niente. Bettino Craxi, leader del PSI, si distacca prontamente dalla vicenda, definendola un caso isolato, “Un mariuolo isolato”, per usare una delle sue prime dichiarazioni a riguardo. Un delinquente solitario, qualcuno non così importante da dover mettere in discussione l’intera politica italiana.
Tuttavia, la realtà era ben diversa. Messo alle strette, Chiesa cominciò a parlare e rivelò nomi, meccanismi e relazioni.
In poco tempo, il pool di magistrati della Procura di Milano – guidato da Antonio Di Pietro insieme a Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo e il suo procuratore capo Francesco Saverio Borrelli – cominciò a indagare su un sistema ramificato e consolidato di corruzione, che coinvolgeva imprese, enti pubblici e partiti politici.
Il metodo è sempre lo stesso: in cambio di appalti, autorizzazioni o favori, venivano versate delle tangenti, quindi un versamento di soldi illeciti.
Con queste informazioni nuove, la Procura di Milano realizza che in mano non ha solo un caso isolato, ma una corruzione sistematica.
Si apre dunque la stagione dell’inchiesta di Mani Pulite.
L’inchiesta Mani Pulite e i primi accusati
“Io mi sento anzitutto vittima di un sistema demenziale. Sono vittima della legge sul finanziamento pubblico dei partiti: per come è stata pensata, scritta e messa in pratica, non poteva che portare all’illegalità […]”
Maurizio Prada in un’intervista di Antonio Carlucci
Il nome Mani Pulite è un nome molto simbolico per un’inchiesta che aveva come obiettivo il “ripulire” la politica e la pubblica amministrazione dalla corruzione sistematica che, per anni, aveva condizionato appalti, carriere e scelte istituzionali.
Dopo le prime confessioni di Chiesa e l’ampliamento delle indagini, le porte dei tribunali cominciarono ad aprirsi anche a nomi che sembravano intoccabili. Fu chiaro fin da subito che non si trattava di un tipo di corruzione legato solo ai piccoli funzionari o amministratori locali.
Il primo nome importante che uscì dalle indagini fu quello di Sergio Moroni. Originario di Brescia, politico del Partito Socialista Italiano (PSI) e ex sottosegretario al Lavoro, aveva una lunga carriera politica alle spalle ed era considerato una figura seria e rispettabile.
Nel settembre del 1992, mentre l’inchiesta di Mani Pulite avanzava, Moroni ricevette un avviso di garanzia: era accusato di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Poco dopo, si tolse la vita con un colpo di pistola nella sua casa a Villanova sul Clisi, lasciando una lunga lettera indirizzata al presidente della Camera, Gianfranco Spadaccia, dove ammetteva e denunciava il sistema delle tangenti.
Per gli inquirenti e per l’opinione pubblica italiana questo caso mise ben in guardia su una cosa: Mani Pulite stava realmente scavando nel profondo del sistema italiano.
Il fiume in piena
Da lì in poi, le inchieste divennero sempre più estese: si arrivò a mille arresti e più di 4.500 avvisi di garanzia, ovvero atti con cui il Pubblico Ministero comunica a una persona sottoposta ad indagini che è stata formalmente sera indagata e può nominare un difensore.
Tra gli arresti più emblematici, ci saranno quelli di Gianni de Michelis, ex ministro socialista, e di Claudio Martelli, altro uomo di punta del PSI. Inoltre, si ricordano altri arresti nei partiti come la DC, PRI e PLI quali: Carlo Bernini, ex ministro dei Trasporti (DC), Lorenzo Necci, manager vicino alla DC e presidente di Ferrovie dello Stato, e Giorgio La Malfa, figlio di Ugo La Malfa, segretario del partito del PRI (unico non condannato.)
Il famigerato caso di Bettino Craxi
«E tuttavia, d’altra parte, ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. […] Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro».
Discorso di Bettino Craxi alla Camera dei Deputati, 3 luglio 1992
Nel 1993, l’inchiesta di Mani Pulite si estese anche a Bettino Craxi che, ormai ex Presidente del Consiglio, venne ufficialmente indagato.
Leader del Partito Socialista italiano, dal 1976 al 1992, fu accusato di aver gestito un sistema di finanziamento illecito dei partiti. Questo segna un momento storico per la politica italiana, e Craxi tentò di sviare alla pressione mediatica del caso che premeva su di lui cercando di descrivere il fenomeno della corruzione politica come diffuso e usato da tutti i partiti. In questo modo, nelle aspettative dell’onorevole Craxi, si sarebbe preso il caso come un problema di politica generale, e non come un problema giudiziario da risolvere con processi.
Rimane impressa, anche per le generazioni che non hanno vissuto la stagione di Tangentopoli, una scena molto simbolica di cui Bettino Craxi fu protagonista il 30 aprile del 1993: sono le 19:00 passate quando Bettino Craxi esce dalla porta principale dell’Hotel Raphaël, nel cuore della capitale. Ha appena terminato un incontro politico riservato. È il suo albergo romano di fiducia, a pochi passi da Piazza Navona, ed è da tempo diventato quasi un secondo ufficio.
Ad attenderlo fuori non ci sono solo cronisti e agenti di scorta. Ci sono decine di cittadini, manifestanti, semplici passanti, molti con espressioni tese, altri con cartelli improvvisati. E poi, d’un tratto, le urla: “Ladro! Vergogna! Ridacci i soldi!”
Piovono monetine.
Per la prima volta sembrava che qualcuno stesse mettendo le mani dentro la scatola nera della politica italiana. Il pool di magistrati milanesi erano diventati i simboli della giustizia agli occhi dell’opinione pubblica, e telegiornali, quotidiani e persino la satira si riempiva di notizie riguardanti questa inchiesta.
Intanto, i partiti storici iniziavano a cadere a pezzi.
I consensi per i partiti come la Democrazia Cristiana e il Partito socialista si perdono a vista d’occhio. La fine di un’epoca è venuta, e portò con sé un quesito essenziali: e adesso cosa succede?
Dopo due anni di indagini, interrogatori e arresti, le elezioni anticipate del 1994 segnarono l’inizio di una nuova fase politica per l’Italia: l’inizio della Seconda Repubblica.
Emersero nuove forze politiche: la Lega Nord, guidata da Umberto Bossi, guadagnò terreno nel Nord Italia con un messaggio autonomista e anti-establishment. Sempre nello stesso anno, Silvio Berlusconi, noto imprenditore nel settore dei media, fondò Forza Italia e si presentò come alternativa al vecchio sistema politico. è proprio con la sua vittoria che si segna l’inizio della Seconda Repubblica.
Con l’elezione del 1994 venne messo in atto un sistema elettorale maggioritario e non più proporzionale, nel quale viene eletto il candidato o la lista che ottiene la maggioranza dei voti, con l’obiettivo di favorire la formazione di maggioranze stabili e alternanza a governo.
Ma servono veramente a qualcosa questi cambiamenti?
Nonostante le promesse di rivoluzione, di aria nuova che urlava a squarciagola “Mai più corruzione!”, molti vecchi problemi non si sono fatti intimidire, ma si potrebbe dire che hanno solo cambiato abito.
Frammentazione politica, governi che cadono, personalismi, risse in Parlamento e promesse elettorali che sembrano senza una data di consegna.
Molto è cambiato e molto è rimasto com’era, solo con una facciata differente. I partiti sono più liquidi, i leader più mediatici, e la politica più personalizzata.
E così, quell’onda lunga di Mani Pulite, che aveva fatto tremare i palazzi del potere, col tempo si è spenta in una risacca lenta, lasciando dietro sé la sensazione che sì, qualcosa era successo. Ma forse non tutto quello che speravamo.
E allora forse la domanda, oggi, non è solo cosa sia successo con Mani Pulite, ma chiederci che cosa abbiamo fatto noi dopo.
Perché un’inchiesta può scoperchiare un sistema in poco tempo, ma è la memoria collettiva a decidere se tutto ciò diventi storia o solo una cronaca vecchia di trent’anni.
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