Dopo giorni di indiscrezioni e tensione internazionale, l’ex presidente statunitense Donald Trump ha annunciato che la decisione definitiva circa un possibile intervento militare americano al fianco di Israele contro l’Iran sarà presa “nelle prossime due settimane”. L’annuncio, diffuso dalla sua portavoce Karoline Leavitt, ha immediatamente alimentato varie ipotesi: da prese di tempo strategiche a negoziati indipendenti, fino a bluff diplomatici.
“Due settimane”: un’espressione flessibile
Da tempo Trump usa la formula di “due settimane” come espediente per rinviare qualsiasi decisione delicata: un modo per distanziare l’attenzione mediatica, guadagnare tempo o semplicemente per creare suspense. Nell’ultimo mese lo ha già fatto in diverse circostanze: discernere le reali intenzioni di Vladimir Putin sui negoziati in Ucraina; decidere il futuro degli aiuti militari a Kiev; valutare la propria fiducia nel presidente russo. Sempre due settimane di incertezza, che quasi inevitabilmente scadono senza una conclusione netta.
Il significato di questo rinvio? Trump sta giocando un doppio turno: da un lato mantiene tutti i contingenti sul tavolo – diplomatici, militari e mediatici – senza impegnarsi in un’azione concreta; dall’altro, alimenta l’aspettativa, massimizzando pressione e copertura senza dare alcuna scadenza precisa.
Negoziati: l’ipotesi più concreta
La prima spiegazione per il rinvio risiede nella possibilità che Trump intenda davvero rilanciare il tavolo negoziale con Teheran. Prima dell’attacco israeliano, gli Stati Uniti avevano mantenuto contatti diplomatici con l’Iran per mesi, e Trump in passato ha sempre mostrato preferenza per accordi diplomatici, piuttosto che confronti militari diretti.
Il capo negoziatore statunitense, Steve Witkoff, avrebbe mantenuto conversazioni anche negli ultimi giorni. Se queste riprenderanno, le due settimane di sospensione servirebbero a sondare la reale disponibilità iraniana al dialogo. Non va trascurato, tuttavia, il nodo “resa incondizionata” che Trump avrebbe posto: una condizione che a Teheran risulta al momento inaccettabile – tanto più mentre Israele continua i bombardamenti nel paese.
Osservare le mosse di Israele
Un secondo scenario indica che Trump intenda lasciare che Israele proceda coi propri bombardamenti: nei prossimi quindici giorni, l’esercito israeliano potrebbe continuare a concentrare i suoi sforzi sulle installazioni difensive iraniane. Se così fosse, l’azione israeliana ridurrebbe in parte i rischi per Washington, qualora si decidesse a intervenire con un attacco più invasivo sui siti nucleari.
Negli ultimi giorni, le forze statunitensi hanno già fatto muovere navi e aerei verso il Golfo Persico. Tra due settimane potrebbe essere schierata una seconda portaerei, rafforzando così la potenziale risposta a eventuali reazioni iraniane e distribuendo meglio le capacità operative nella regione.
Bluff strategico o diversion?
Una terza ipotesi è che tutto questo rinvio sia un bluff calcolato. L’ammiraglio in pensione James Stavridis – in una recente intervista alla CNN – ha suggerito che Trump e i vertici israeliani potrebbero aver architettato una mossa di “oscuramento”: far credere all’Iran che le trattative siano sul serio in corso, mentre in realtà ci si prepara a un attacco lampo.
Analisti legati a Israele avevano formulato un’idea simile nelle scorse settimane, sostenendo che i dialoghi – forse già in fase conclamata – avrebbero potuto distogliere l’attenzione iraniana, rendendo Teheran più vulnerabile. Nonostante ciò, vari reportage recenti hanno sottolineato che la volontà negoziale di Trump sembrerebbe genuina, mettendo in dubbio la teoria del diversivo.
Riconquistare l’agenda: un ritorno alla leadership politica
Al di là degli scenari tattici, è possibile che il rinvio serva semplicemente a Trump per riconquistare l’iniziativa politica. Fino a ora, gli Stati Uniti sono parsi in posizione di reazione alle decisioni prese da Benjamin Netanyahu: Israele ha scelto tempi e forme dell’attacco, costringendo Washington ad adeguarsi rapidamente con delle risposte. Ma lasciando passare del tempo, Trump potrebbe riorientare la conversazione sui suoi termini, stabilendo egli stesso cronologia e contenuti dell’azione.
Un ritardo strategicamente utile per evitare di apparire trascinati in una guerra per conto terzi – una lettura che combina mantenimento del controllo e riduzione del rischio politico interno.
Il rinvio a breve termine apre una finestra di incertezza. Tre possibili traiettorie:
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Ripresa negoziati seri: se l’Iran interromperà i bombardamenti e sceglierà di sedersi al tavolo per un compromesso accettabile, potrà nascere un’intesa negoziale.
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Preparazione militare in corso: Israele continua a colpire, gli Stati Uniti dispiegano forze, e l’area diventa teatro di una crescente tensione che potrebbe preludere a un’escalation.
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Mossa tattica di inganno: un’attesa voluta per confondere l’avversario, seguendo una strategia militare o diplomatica camuffata.
Trump potrebbe usare questo rinvio anche come leva per cementare la propria posizione nel panorama politico americano. Un impegno verso la pace viene ben visto dagli elettori moderati; d’altro canto, una ferma linea militare appaga il segmento conservatore più interventista. Intanto, l’incertezza alimenta i media con un flusso continuo di analisi, speculazioni e “breaking news”, consentendo a Trump di restare al centro del dibattito.
Il rinvio di due settimane non è una data certa, ma un luogo strategico – un teatro nel quale Trump decide se spingere su diplomazia, bombe o bluff, ricollocando se stesso al comando narrativo. Nel frattempo, il mondo resta in sospeso, tra speranze di un dialogo contenuto e timori di un’escalation incontrollata.
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