“Oggi il Medio Oriente è un monumento all’incapacità occidentale di rendersi conto dei problemi“. Era il 9 novembre del 1959 quando Kennedy pronunciò queste parole. E lo fece nel suo discorso all’Eastern Oregon College of Education, davanti a centinaia di studenti che pendevano dalle sue labbra. Parole profetiche, oggi, ma che allora suonarono come un’ammissione devastante degli errori (anche americani) dei paesi del blocco occidentale nei riguardi di un arretrato Medio Oriente. Arretrato, e bellicoso.
“La situazione peggiorò dopo il teatrale annunzio della Dottrina Eisenhower – continuò JFK – secondo la quale il Medio Oriente andava considerato quale provincia americana, da difendere contro l’aggressione esterna. Io affermai che quella dottrina non avrebbe mai dovuto approvarsi, perchè non offriva né la soluzione immediata alla crisi di Gaza e Aqaba, né a quella di Suez, del traffico d’armi, dei profughi, dei confini, e di tutti gli altri motivi di attrito fra arabi e israeliani. La somma totale degli aiuti economici e tecnici erogati dagli Stati Uniti a tutti gli otto stati arabi nei 5 anni anteriori al 1957 ammontava a circa 73 milioni di dollari soltanto. Israele ha ricevuto circa 237 milioni di dollari. Ma la somma discussa per l’intero Medio Oriente era inferiore alla somma per scopi analoghi che noi spendiamo ogni anno per Vietnam, Corea o Formosa. Era una somma incredibilmente bassa, per voler davvero rafforzare la stabilità economica e politica di un’ampia difficile zona. Ma il problema principale era ed è quello di intendere le forze motrici e i bisogni principali della zona nel suo complesso, e di tracciare un’opportuna lungimirante politica americana”.
“A me pare che i nostri errori nel Medio Oriente siano stati anzitutto errori di impostazione – ammise JFK – Noi abbiamo preferito trattare le questioni di quella zona quasi esclusivamente nel quadro della lotta tra Oriente e Occidente, cioè come se fossero parte della nostra battaglia contro il comunismo internazionale. I responsabili della nostra politica estera trascuravano, ritenendoli di scarsa importanza, i problemi del nazionalismo, dello sviluppo economico, dei dissidi politici interni. Gli arabi sapevano che mai truppe sovietiche avevano occupato i loro territori, e che invece li avevano occupati truppe occidentali, e quindi non erano disposti a mutare nazionalismo o neutralità in alleanza con le nazioni d’Occidente. Nel Medio Oriente noi abbiamo commesso errori gravi. Abbiamo sopravvalutato la nostra forza e sottovalutato la forza del nazionalismo. Non ci siamo accorti d’aver perduto il controllo degli eventi, né abbiamo agito di conseguenza quando la realtà si è fatta evidente. Abbiamo sostenuto un regime, e non un popolo; troppo spesso abbiamo legato la nostra sorte alla fortuna di governi e governanti impopolari, e in ultima analisi destinati a cadere. L’atteggiamento che avevamo, da banale e tradizionalista, deve farsi concreto, progressivo, intelligente. Bisogna soprattutto riconoscere i fatti quali essi sono, e non quali li avremmo voluti per nostra convenienza“.
Era il 1959, e quel giovane presidente democratico aveva già la soluzione per quei drammatici problemi: “Dobbiamo parlare un linguaggio che superi il lessico della guerra fredda, un linguaggio che si traduca in valori tangibili, concreti, per gli arabi e per noi. Non basta parlare di cannoni e denaro, perchè cannoni e denaro non rappresentano le necessità fondamentali del Medio Oriente. Non basta affrontare il problema nei suoi termini spiccioli. Non basta attenerci a ogni singola, instabile condizione di status quo. Non basta richiamarsi al patto di Baghdad o alla dottrina Eisenhower, non basta fidarsi della Sesta Flotta. Sono mezzi che hanno fallito la prova. Se riusciamo a discutere con gli arabi sulla base dei loro, e non dei nostri problemi, allora io sono convinto che che il Medio Oriente può diventare una zona di forza e di speranza. Facciamo loro presente che noi vogliamo amici, e non satelliti, che a noi interessa la loro prosperità quanto la nostra. Occorre intelligenza e cautela insieme, cose che finora nel Medio Oriente non abbiamo saputo dimostrare. Ed è venuto il momento di farlo”.
Vogliamo ripeterlo, perchè il conteggio degli anni passati senza risolvere nulla è importante: era il 1959.
Solo tre anni prima, nel giugno del 1956, dopo oltre 60 anni di guardia al canale di Suez, l’ultimo reparto britannico lasciava l’Egitto. Il 26 luglio successivo, il presidente Nasser nazionalizzava il canale. Fu un atto che indignò Gran Bretagna, Francia e molti altri paesi europei. I rapporti tra Israele e stati arabi confinanti erano tesissimi. Interminabili colpi di mano alle frontiere tra Egitto, Siria, Israele e Giordania avevano luogo con cadenza settimanale. il Consiglio di sicurezza dell’ONU, che all’inizio del 1956 aveva condannato una pesante e sanguinosa aggressione di Israele alla Siria, giunse addirittura ad inviare in teatro il segretario generale Hammarskjold. Mentre era lì, l’artiglieria israeliana uccise oltre 50 persone a Gaza. I morti erano quasi tutti profughi arabi. L’Egitto attaccò Israele con i suoi guerriglieri scelti, di certo supportati per le solite vie traverse dall’URSS. Di conseguenza, Gran Bretagna, Canada e Francia inviarono in Israele imponenti carichi di armi.
E proprio in quei frangenti Kennedy parlò al Banchetto annuale dell’organizzazione sionista Hustradut di Baltimora, e disse: “I fatti nuovi che posso evidenziare sono sette. Il primo: Israele ha assunto un ruolo sproporzionato rispetto alla sua grandezza, alla sua forza e al significato che aveva in anni trascorsi. Secondo: il mondo intero deve ricorrere al Medio Oriente per il petrolio, e per il suo trasporto verso altri luoghi. L’Europa continuerà a dipendere dal petrolio del Medio Oriente all’infinito, e questi sono dati di fatto imprescindibili. Terzo: il comunismo entra ovunque nei posti di propaganda sociale araba, e ne corrompe gli animi, mentre l’Occidente diviso e sospetto, continua a perdere in zona forza e prestigio. Quarto: non dobbiamo mai considerare i problemi della nazioni del Medio Oriente prescindendo dalle condizioni economiche e sociali di quei popoli. Quinto: l’insorgenza del nazionalismo arabo e la rivolta del Medio Oriente contro il colonialismo occidentale sarà sempre più pressante. Sesto: assistiamo alla pericolosa ascesa dell’Egitto alla testa del mondo arabo, come massimo provocatore contro l’Occidente. Settimo: la fisionomia del Medio Oriente sarà forgiata per le prossime generazioni dallo Stato di Israele, che prima non esisteva“. Una capacità di analisi che restò pressoché inascoltata, ma che ancora una volta dimostrava la grandezza politica e diplomatica di quell’uomo.
E le proposte di Kennedy non furono solo teoriche, perchè si spinse ad entrare nel merito della questione e dipingere le possibili azioni concrete: “I profughi arabi della Palestina? Lasciamoli rimpatriare in Israele, almeno quelli disposti a vivere in pace coi propri vicini, ad accettare il governo Israeliano. Dovremmo chiudere i campi profughi, e Israele dovrebbe indennizzare quelli che, tra i profughi, hanno subito perdite finanziarie o immobiliari. Dovremmo istituire nuovi programmi per l’uso delle acque e delle terre coltivabili. Propongo un Fondo per le risorse locali del Medio Oriente, che sovvenzioni con le risorse mondiali di tutti gli stati i progetti di sviluppo in quella zona”.
Va ricordato che nel 1956 il numero di abitanti in Israele superava i due milioni. Sotto la mano di Ben Gurion, e con il genorosissimo aiuto di tutti gli ebrei del mondo, la piccola repubblica era diventata un luminoso esempio di progresso per gli altri paesi del Vicino Oriente. Il Fondo Nazionale Ebraico, che per 47 anni volle la fondazione di uno stato ebraico indipendente, era il fulcro di questo magnifico risultato.
Quindi, anche alla luce di queste evidenze, Kennedy disse: “Bisogna sfatare un mito oggi dominante: quello di considerare che il sionismo è stato in Medio Oriente un corpo estraneo infettivo, che senza Israele nel Medio Oriente e nel mondo arabo avremmo necessariamente armonia. Distorce la realtà chi afferma essere la tendenza democratica di Israele l’elemento che inietta discordia e dissenso nel Vicino Oriente. Anche seguendo un gelido calcolo, la scomparsa di Israele non muterebbe affatto la situazione critica di quella zona. Gli stati arabi tutti, seppure con diversi gradi di sviluppo, troppo spesso han veduto in Israele un capro espiatorio, e nell’antisionismo un pretesto per sviare l’attenzione del popolo dai difficili compiti dello sviluppo nazionale e regionale, e dei problemi tipici della zona. I patti militari non hanno mai soluzioni durevoli. Al contrario, accrescono gravemente il pericolo di una polarizzazione nel Medio Oriente. Nessuna zona più di questa ha bisogno di uno sforzo effettivo in vista del disarmo“.
E anche in quell’occasione il disegno kennediano non era solo teoria, perchè JKF propose ancora una volta le sue soluzioni pratiche: “I grandi bacini fluviali di quella regione sono internazionali: Giordano, Nilo, Tigri e Eufrate. E molti altri stati, oltre agli Stati Uniti, possono contribuire all’assistenza economica e tecnica di tutti gli Stati che insistono nell’area. Serve un fondo di sviluppo in tutta la zona, anche per risolvere il problema dei profughi palestinesi. Serve un Ente per lo sviluppo del Medio Oriente, che raccolga capitali in quella zona e offra assistenza tecnica mirata. Lo stato ebraico si realizzò nel testimoniare l’umanità depredata, profanata e diseredata, ma oggi la storia può registrare tale evento come preludio alla guarigione non solo di una striscia di terra ma anche di una vastissima zona, e di un continente intero. E non tocca ai soli Stati Uniti assumersi un impegno simile, ma possiamo dimostrare che la pioggia segue l’aratro, tutti, collettivamente“.
Fa specie dover considerare che ancora oggi esiste qualche complottista (fanatico dell’omicidio Kennedy) che imputa la responsabilità di Dallas alla lobby ebraica. Solo un pazzo potrebbe davvero credere che sia stato Israele, dopo tutto ciò che JFK cercò di garantire a quel popolo, a far fuori il più giovane presidente democratico americano. Di certo, la comunità internazionale fu sorda e cieca davanti alla lungimiranza di John Fitzgerald Kennedy. Se avessimo imparato le sue lezioni, forse oggi non staremmo di nuovo cinicamente a contare le vittime. E va da sé che la riflessione, in pieno spirito kennedyano, deve valere per tutti i soggetti coinvolti nell’ennesima crisi tra Israele e Palestina.
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